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5. Per un’estetica trascendentale del corpo.


Zenone a Socrate: << Il volgo infatti ignora che al di fuori di questa strada che passa per ogni dove, di questo trascorrere di cosa in cosa, è impossibile fare in modo che la nostra mente incontri la verità >>. (Parmenide 136e).

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Quando si pone, contro l’analitica, il problema dell’estetica trascendentale, e lo si pone in termini propri, è bene subito aggiungere che la ricerca non potrà che passare << per ogni dove >> e cioè esercitarsi attraverso approssimazioni successive, sciogliendo per così dire le categorie analitiche dentro l’esperienza, innalzando i contenuti dell’esperienza a trasparenza concettuale. Questo processo di ricerca è un vero e proprio processo costitutivo. Abbiamo visto le condizioni generali, metafisiche che stanno alla base di questo nostro avanzare: qui dobbiamo vedere come giudizi analitici vengono costituendosi, in maniera necessaria, a posteriori. La costituzione del giudizio analitico a posteriori è quindi, in questo paragrafo, il nostro fondamentale problema.

Deve essere chiaro - e questo lo diciamo prima di entrare nel merito dell’argomentazione - che quando si parla di giudizio analitico a posteriori, e cioè di giudizi dotati di un contenuto empirico che in quanto tale garantisce, mostra, produce, la verità del giudizio stesso - quando dunque si parla di giudizio analitico a posteriori, non solo si assume con la massima forza un’estraneità logica dai giudizi a priori o a posteriori in generale, ma soprattutto si prende distanza dalla teoria kantiana dei giudizi sintetici a priori. Nel rovesciamento dei termini (poiché sintetico può stare per a posteriori ed analitico per a priori) uno spirito sofistico potrebbe infatti facilmente arzigogolare di simiglianza di approccio ed analogie di contenuto. Non è così: nella gnoseologia kantiana l’elemento assolutamente preminente è quello a priori in quanto esso rappresenta un attività formativa e la sintesi empirica è completamente subordinata all’orizzonte trascendentale,

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- vale a dire a quell’orizzonte sul quale si condensa ogni attività produttiva della ragione. Quali che fossero le ambiguità kantiane a questo proposito, nessuno può negare la profonda coerenza dell’interpretazione idealistica del fondamento trascendentale. Nella nostra terminologia, e al fondo del nostro progetto, << analitico a posteriori >> rovescia radicalmente l’impostazione kantiana. Significa infatti che l’elemento necessario della conoscenza, il momento formativo del processo e della tendenza conoscitivi, risiedono nell’esperienza empirica. Tutto ciò può avvenire (e in questo può essere verificato il superamento delle aporie tradizionali dell’empirismo), perché la nostra empiria, il mondo nel quale noi recuperiamo verità è quello disegnato, in termini di comunicazione, dai grandi flussi di significati che costituiscono ogni orizzonte sensato. Strano paradosso questo: nella grande corrente dello scetticismo linguistico moderno, formatasi tra Frege, Russell e Wittgenstein, la distinzione tra l’orizzonte del senso e quello del significato era intera ed insuperabile; di fronte alla precarietà ed alla contingenza dell’orizzonte del senso, sfumava dentro una lontananza irraggiungibile l’universo materiale dei significati; ma ecco il rovesciamento: poiché nella misura stessa in cui il mondo del senso linguistico e comunicativo diveniva esclusivo, su quel mondo si scaricava l’essenzialità fondamentale del vivere. Così la grande svolta linguistica della filosofia contemporanea indefinitiva non solo non produce scetticismo ma al contrario ci restituisce un’ontologia dei significati, un mondo sí circolare e fluente ma dentro il quale, a posteriori. La necessità della determinazione si articola all’emergere della verità. Ecco dunque in che senso per noi, qui, il giudizio analitico a posteriori può darsi.

Direi che un ulteriore paradosso è qui verificabile ed utilizzabile in nostro favore. Vale a dire, riprendendo la terminologia kantiana: l’analitica trascendentale aveva, in Kant e nell’idealismo per così dire divorato, a valle, l’estetica e, a monte, la dialettica trascendentale. Ed aveva, di quest’ultima, fatto un feticcio scettico, un regno di illusioni, false ma non per questo meno efficiente. Ora, la riconquista dell’estetica, la denuncia dei processi di significazione che l’analitica dovrebbe produrre, l’emergere della determinazione vera sul piano dell’effettualità comunicativa: tutto questo ci restituisce una dimensione della dialettica

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trascendentale non più soggiogata nel regno delle illusion, false bensì intesa come tessuto di continuità conoscitiva e proiezione di immaginazione vera. E’ nel dislocamento di questi livelli, nell’articolazione tra queste funzioni parziali, che mano a mano viene costituendosi << l’analitico a posteriori >>.

Ma che cos’è dunque (oltre la pregnanza gnoseologica della dizione: analitico a posteriori) il contenuto conoscitivo che è, attraverso questo giudizio, innalzato a verità? Ora, iniziamo in termini polemica. La verità della determinazione non può essere colta in termini intuizionistici né comunque condizionata dalla pretesa psicologica di apprensione di un reale che, in quanto tale, indipendentemente si dia. Noi viviamo un mondo attraversato da mille sensi, siamo collocati dentro una rete di relazioni che sole rendono questo mondo significativo. Ciò che è fondamentale, non è dunque indurre, al di là di questa rete, dei sostrati stabili quanto irraggiungibili - importante è fissare la materialità, la irresolubilità di queste relazioni. Che la definizione dell’oggetto non, possa passare se non attraverso la categoria della totalità e cioè la conoscenza sia della relazione oggettiva che di quella soggettiva che s’addensano sull’oggetto: è una verità ormai solidamente piantata nel tessuto scientifico del materialismo moderno. Eppure spesso il criterio della relazione, se non il suo contenuto specifico, era convalidato da un elemento esterno alla relazione. Tipica è, a questo proposito, la posizione di Marx: per lui i rapporti costituenti soggetti, gli antagonismi, processi di produzione e le articolazioni di questa, sono garantiti dalla teoria del valore, - ed è da lui solo lontanamente prevista una fase (la sussunzione reale della società nel capitale) nella quale i rapporti di produzione e i valori reali non si distinguono né si duplicano in funzione astratta. Dobbiamo attendere la più vicina modernità, ed in particolare gli autori della << svolta linguistica >>, per ritrovare la garanzia del criterio dentro le relazioni che formano l’oggetto. Quest’operazione è pagata da talora consistenti concession al formalismo - questo, almeno, in Frege e in Russell - molto meno è vero però già nell’ultimo Wittgenstein dove l’orizzonte linguistico esalta una certa ombrosa ontologia. Non basta: dobbiamo liberarci di ogni minimo residuo dialettico, formalistico o tautologico che esso sia. E’ questo il programma positivo che presiede alla definizione dell’analitico a posteriori. Ora, quando noi ass assumiamo

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l’oggetto, non possiamo perciò che verificarne fin da subito, con l’insistenza della relazione che lo definisce, la potenza e la direzione, il vettore insomma sul quale esso si orienta tra le relazioni che lo costituiscono. Vale a dire che le condizioni conoscitive non vengono logicamente poste - le condizioni conoscitive sono condizioni di esistenza: solo l’ << a posteriori >> libera l’analitico dalla tautologia, dall’isolamento nella sfera del puro senso logico, dall’incapacità di farsi corpo. In effetti la relazione dev’essere per così dire scissa, interrotta, geometricamente trasformata in una serie di funzioni diversamente disegnate, che sempre tuttavia si ricondensano sull’oggetto. Tutto questo non è logico nel senso che esaurisce la proposizione in un mondo autosufficiente capace di una propria circolare riproduzione. No, qui il termine logico va, alla maniera classica, riportato alla capacità di piegarsi, di modularsi, dentro il concreto. L’analitico sorge dunque qui, da questo non poter essere diverso dal reale che è descritto dalle relazioni, da questa immanenza assoluta dell’approccio filosofico. L’analitico dunque può e deve trovare il suo rapporto con la contingenza. Il problema logico di un’estetica trascendentale di tipo nuovo muove, come abbiamo visto, dalla rideterminazione dell’essere come contingenza. La contingenza è l’essere così come ci è presentato, nella sua mobilità, nella sua versatilità, ed insieme è l’affermazione che l’essere non può essere diverso. Vi è una verifica analitica della contingenza ed è la necessità che l’essere sia contingente. Con ciò noi parliamo dell’assoluta necessità che la dimostrazione scenda sempre a scontrarsi con il reale e a nutrirsi di esso e ad esasperare il rapporto in esso. Le condizioni di un’estetica trascendentale sono in questo processo. Se ci chiediamo di nuovo se esse siano sufficienti, in quanto condizioni logiche, a garantire la costituzione dell’oggetto, possiamo ora dichiarare l’insufficienza dell’affermazione. Meglio tanto la sua necessità quanto la sua insufficienza. Della necessità abbiamo detto, e qui, in conclusione, possiamo sottolineare ancora l’importanza di questo procedere << per ogni dove >>, ma non senza una precisa direzione. Che questo processo non arrivi ad una conclusione definitiva è d’altra parte necessario: perché la contingenza che caratterizza l’analitico nella figura che questo assume sull’orizzonte comunicativo, in nessun caso permette una chiusura logica del discorso La contingenza,

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come abbiamo visto, è a chiave che apre la logica all’ontologia - ma soprattutto apre l’ontologia all’etico. E’ su questo terreno, è nella prospettiva del fare, del costruire, del costituire a nuova realtà del mondo e della comunicazione - e dunque in questo processo etico che l’estetica trascendentale del materialismo viene definendosi. Potenza, tendenza, antagonismo si disegnano dentro questo sviluppo etico, ed il rapporto tra processo conoscitivo e verità, fra contingenza e necessita deve essere a questo contesto riportato. Ma, insisto, questa conversione etica del processo conoscitivo non indebolisce, né toglie né elimina la specificità della ricerca logica: ne indica semplicemente l’insufficienza, esattamente quella che nella filosofia di Frege, di Russell e di Wittgenstein è stata definita. Ne qui, sul a definizione di questa insufficienza, ci si può ancora fermare. Basti aggiungere che non v’è specialismo che possa trattenere e imprigionare la ricerca filosofica, se gli stessi termini della logica rivelano un limite e richiedono un dislocamento. Questo dislocamento va compiuto - su di esso ogni strumento del pensiero filosofico va riapplicato. Così torniamo al rapporto fondamentale - quello definito dalla contingenza - ai suoi diversi aspetti, ai suoi diversi gradi , al dualismo radicale che la domina. La logica è il corpo. L’etica è il corpo.

6. Il concetto di costituzione pratica.

Lo sviluppo della ricerca continua a spingerci verso l’ontologia etica. E’ solo sul terreno dell’ontologia etica infatti che le antonomie e i rompicapi della conoscenza potranno essere risolti.

Nella nostra introduzione abbiamo letto e commentato il << Systemprogramm >> - qui, ora, siamo collocati laddove esso intuisce il passaggio fra estetica e dialettica trascendentale. Questo passaggio è, qui come là completamente inserito nella trama dell’essere. Era il momento più alto di una concezione idealistica a natura si faceva storia, idea. Qui quell’assoluto si rovescia, come sempre avviene quando lo spingiamo - meglio le forze materiali della storia lo hanno spinto - fino al suo opposto. Qui è la storia che s fa natura, o meglio, è la natura che assume un ventaglio di protesi organiche e strutturali. La natura si modifica attraverso

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una sorta di assimilazione cibernetica di tutte le protesi intellettuali che ad essa si sono applicate. E’ uno straordinario arricchimento, quello cui assistiamo: non è solamente a forza produttiva del lavoro umano che raggiunge altissimi punti di qualità, assimilando a sé tutto il sapere, e l’intelligenza, e l’immaginazione che una civiltà superiore sanno produrre - non è solo questo, anche se il processo avviene sui ritmi dello sviluppo della produzione e dell’arricchimento della forza lavoro: è in realtà l’intero mondo umano a conquistare questa strana e nuova figura. Si potrebbe parlare di una << seconda natura >>, ma forse anche di una terza, o di una quarta, o di un’ennesima potenza della natura tanto l’insieme delle facoltà umane è venuto modificandosi, poi trasformandosi ed arricchendosi. Nessuno può dire quale sia il senso, in meglio o in peggio, di questa trasformazione - non ci sono teleologie storiche o antropologiche che possano fissare un termine alla querelle degli antichi e dei moderni. Detto ciò, e messe le mani avanti in ogni senso, v’è un’unica cosa che si può dire con certezza: ed è che è aumentata la capacità di fare, quella specifica capacità umana di fare che è legata all’uso degli strumenti. Ma questo incrementarsi della ragione strumentale ha condotto al di là dell’orizzonte degli strumenti: il fare è divenuto natura, ha di questa colto la forza immediata, l’essenza irreversibile, a corporeità irriducibile.

Con ciò il discorso sulla costituzione pratica dell’essere e sulla fondazione etica della logica divengono sempre più evidenti. Innanzi tutto quella soggettività naturale, che fino a questo punto abbiamo seguito nella sua trasformazione, si presenta come essenza collettiva. Questa essenza collettiva é tale in senso proprio, vale a dire che ogni soggetto è attraversato da un insieme di relazioni che lo definiscono in quanto tale. Ma collettivo in senso proprio significa anche che la capacità produttiva individuale e l’essenza umana singolare così costituitesi, sono una determinazione universale. Il divenire sempre più astratto dell’intelletto umano, il divenire sempre più astratto della forza-lavoro - questo processo di astrazione, questo straordinario incremento della ragione strumentale producono il paradosso di una nuova singolarità (e la reale soluzione di questo paradosso). L’astrazione astrae sulla vecchia natura, costruisce indecenti protesi su un vecchio corpo mutilato - ma a partire da ciò l’astratto è assorbiti

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nella nuova corporeità e le protesi si perdono nel prodursi del nuovo corpo. Tutto questo è tanto collettivo quanto sempre il concetto di natura è stato universale: collettivo è qui dato in termini di ontologia logica. Vi è di più: ed è che questa corporeità nuova rivela due caratteristiche fondamentali. Tanto fondamentali quanto lo sono, in genere, le caratteristiche strutturali dell’essere. I due caratteri sono quelli della virtualità e della irreversibilità, il primo come funzione elastica e il secondo come funzione rigida nello sviluppo di un’etica costitutiva. Per virtualità intendo quella estrema determinazione del pratico che rappresenta l’essenza della sempre nuova determinazione singolare dei soggetti. Parlo di possibilità pratica, reale, come rapporto fra una serie di determinazioni e la semplificazione di queste nella scelta. Rifiuto qui ogni determinazione della possibilità che ne annulli la capacità costruttiva, immergendola in una serie indefinita di predisposizioni e di opportunità. Virtualità è, di contro, il rapporto che, in maniera determinata, si costruisce fra un contesto storico già consolidato, nel quale solo una serie di tendenze sono prevedibili, - e, d’altra parte, quella pratica di decisione che fra queste storicamente imitate ma ricche opportunità razionali, sceglie e quindi costituisce realtà singolare. E’ chiaro che quando si parla di ontologia etica si assume un tale profondo intreccio di logica e di etica, di giudizi di fatto e di giudizi di valore - intreccio inteso alla costituzione della realtà stessa - che non si può più distinguere nettamente fra i due livelli. E’ questa constatazione un abbassamento del potenziale di libertà che è proprio del soggetto? Io non lo credo poiché è solo se noi consideriamo il tessuto delle scelte come tessuto preformato e percorso da tendenze concrete, è solo in questo caso che un concetto di libertà in quanto concetto di un’attività pratica, può darsi. Intendo dire che la nozione di possibilità diviene reale solo trasformandosi in concetto di virtualità, con lo spessore e l’intensità che questa differenza registra.

Ma ciò detto è evidentemente chiarito anche il concetto di irreversibilità. Esso è, per così dire, il momento rigido della virtualità, la statica che completa la dinamica. L’irreversibilità è quel punto sul quale una piccola ma essenziale catastrofe, un salto di qualità, si danno all’interno dell’essere, nel processo della sua costituzione. L’accumulo di tutte le esperienze ad un certo punto

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diviene un evento rivoluzione. E’ come quando guardiamo un disegno ed improvvisamente cogliamo la bellezza di un particolare che ci era sfuggito e questo ci sembra trasfigurare l’insieme dell’opera che consideravamo. Irreversibile è il mutamento della logica dell’esistente: vale a dire che d’ora in avanti, quando questo passaggio sia stato rivelato, tutti gli elementi della considerazione dovranno essere organizzati da una nuova logica, interna all’esistente considerato. Irreversibilità è chiusura di un processo genetico ed apertura di nuove genealogie. Irreversibilità è definizione di nuove virtualità e rivelazione di nuove tendenze.

Nel definire queste caratteristiche essenziali dell’essere nell’ambito di un ontologia etica, noi perveniamo al concetto di virtualità e di irreversibilità da vari punti di vista. Innanzittutto, come si è visto dall’apprendimento del rapporto tra logica ed etica, fra giudizi il fatto e giudizi di valore, - meglio, dalla soluzione pratica dell antinomia che la considerazione separata di codesti due giudizi può produrre. Solo infatti la dimensione pratica, l’atto razionale di volontà, qualora siano inseriti in un orizzonte collettivo, possono permetterci di riconoscere positivamente, e di agire costruttivamente, quello lato che distingue il conoscere dal valore e di riconquistarlo all’unità dell’essere. Ma vi sono altri punti di vista dai quali una nuova concezione dell’essere - quando sia considerata attraverso la rappresentazione della natura, può essere avvicinata. Ci spingono innanzitutto avanti le versioni più attuali e critiche della teoria delle innovazioni nella ricerca scientifica intendo riferirmi alla teoria dei paradigmi. Essa non ha un fondamento neo-kantiano, - essa è una teoria ontologica della scienza vale a dire una considerazione del rapporto che la scienza intrattiene con la natura per modificarla, per costituirla, quindi per conoscerla. Quando assistiamo ad un mutamento catastrofico del paradigma scientifico noi percepiamo allora un vero e proprio sussulto dell’essere. Il nuovo paradigma sarà irreversibile ed aprirà nuove virtualità. Ancora, un altro punto di vista a partire dal quale possiamo avvicinarsi a questa concezione della natura, è quello storico intendo il punto di vista di quella storiografia dei movimenti sociali che permette di definire il passaggio dall’una all’altra composizione del soggetto storico, e di costruire tendenze e virtualità a partire dal salto qualitativo, dalla

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novità radicale, che una nuova composizione mostra a fronte dell’accumularsi delle stesse esperienze intervenute nel suo processo genetico. Anche in questo caso vi è una catastrofe, una modificazione radicale, che talora in termini storici diciamo << rivoluzione >>, - che in ogni caso residua una qualità assolutamente nuova dell’essere collettivo.

Ecco perché, per l’oggi, parlavamo e continuiamo a parlare di nuovo giusnaturalismo. Qual’era lo statuto teorico del giusnaturalismo classico dei secoli dal XVI al XVIII? Era questo: la teoria giusnaturalista si poneva come immanenza catastrofica contro a concezione teistica dell’autorità e del valore, come teoria progressiva, individualistica contro la concezione organica e tradizionale del valore. Vale a dire che la teoria del giusnaturalismo era una chiave dinamica di proposta trasformativa, di distruzione dell’unità sociale ipostatica, di trasformazione pratica e di lettura moderna di questa. Il salto avviene all’interno del progetto: che la teoria giusnaturalistica fosse essenzialmente individualistica non toglie il fatto che essa rappresentasse, in termini logici, l’universalità di una pretesa di rinnovamento, anzi la sua progressiva effettualità. Così, dirsi nuovamente giusnaturalisti significa assumere il nuovo concetto di natura, questo concetto di una natura trasformata, dentro la quale la rivoluzione è divenuta fondo stabile del sapere e dell’agire - come fondamento irreversibile e come definizione di possibilità nuova.

Altrove ho cercato di definire questo processo di singolarizzazione dell’essenza astratta come apparizione del tempo della vita contro il tempo del potere, dimostrando come il secondo costituisce una macchina che riduceva a zero la potenza del lavoro e del sociale. Ma quest antinomia può essere moltiplicata - ed anche nel corso di questa ricerca abbiamo visto all’opera alcuni rompicapi che ci sono sembrati avere una radicale funzione di rottura rispetto all orizzonte logico della tradizione. Mi chiedo: in un estetica trascendentale del corpo e della comunità, quand’anche le condizioni logiche fossero date, non resta troppo generico il rinvio ad atti di significazione etica perché se ne possano trarre indicazioni efficaci al superamento dei rompicapi. Altrimenti detto è possibile costruire comunità senza risolvere, logicamente ed anticipatamente, i rompicapi dello spirito? Ora, io penso che a questo interrogativo si possa dare risposta positiva. E penso

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anche che la sola soluzione dei rompicapi sia pratica. La ricerca deve quindi procedere. Ma l’abbiamo fatto, credo, in maniera da non essere imprigionati dalle caratteristiche esterne del rompicapo. Vale a dire: il rompicapo non è un’antinomia in generale, esso è un’antinomia costruita dentro un paradigma e quindi una determinazione storica precisa, una produzione determinata.

Non vi è superamento del rompicapo, vi è solo modificazione del paradigma. Ecco perché una risposta diretta alle questioni poste dai rompicapi, non può essere una risposta diretta, ed ecco perché possiamo rispondere al quesito su come sia possibile pensare il corpo e la comunità, prima di, e fuori da, una soluzione dei rompicapi. Questa possibilità è essa stessa pratica perché il paradigma è pratico. E’ solo sulla base di un dislocamento globale che la questione diviene risolvibile. Di nuovo allora possiamo pensare che l’andare avanti nel pensiero della rivoluzione è, come prevedeva il << Systemprogramm >> e come dicevamo nella nostra introduzione, possibile solo a partire dalla rivoluzione come preambolo. Come preambolo storico determinato, dato. Come modificazione di paradigma già intervenuta.

Nel << Systemprogramm >> si auspica la costruzione di una nuova mitologia sensibile. Questa richiesta è del tutto collegata sia all’urgenza di passare dal terreno della logica a quello dell’agire etico-collettivo, sia dalla necessità di trascorrere dall’estetica trascendentale alla dialettica trascendentale. Il superamento dell’analitica consiste in queste due operazioni. Invero, di una mitologia abbiamo bisogno. In questo mondo nel quale ogni determinazione positiva si è trovata travolta nell’insensatezza di una circolazione pura; in cui ogni insistenza etica è stata subordinata ad emergenze ciniche ed i valori e i disvalori sono intercambiabili - bene, una mitologia, un disegno empirico del valore sembrano nuovamente necessari. Non certo per fondare pretese profetiche o retoriche, non certo per legittimare riduzioni della complessità problematica, insomma, non per dare fondamento a ciò che fondamento non ha: ma solo per aprire un orizzonte che sappia di nuovo... Una mitologia della ragione etica diviene così non tanto indicazione positiva di un cammino da percorrere quanto definizione di un orizzonte da riconquistare. La dialettica trascendentale, oggi, non può configurarsi che come momento di costruzione dell’immaginazione vera, a partire da un’estetica

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trascendentale dell’immediatezza. Contro ogni analitica, contro ogni pretesa regola della ripzione, e contro ogni coazione formale, anzi, assumendo tutto questo come oggetto specifico della critica razionale, di una critica che attraversa l’empirico per esercitarvi la scelta etica, la pratica trasformativa - questo è il passaggio dall’estetica alla dialettica trascendentale. Ed è qualcosa di straordinariamente pieno di incompiuto - direbbesi, di inconcluso a monte; a valle di una straordinaria virtualità creativa. La conclusione di questo processo infatti si potrà cominciare a scorgere solamente quando esso si svolgerà completamente sul terreno della realtà corporea, della storia politica e della costituzione comunitaria. Noi possediamo - è quanto attiene alla modificazione del paradigma, è il contenuto della << rivoluzione come preambolo >> - noi possediamo un’irreversibile virtualità di astrazione completa del mondo, di sua singolarizzazione adeguata, quindi, di costruzione di una nuova corporeità creativa, di un sapere portato al più alto livello dei bisogni, del desideri, dei piaceri. Questo processo si svolge: ma ogni verifica completa è solo costruzione piena. Nelle attuali condizioni l’indefinitività di questo processo è rappresentata da un passare continuo da uno ad un altro grado dell’essere ed il passaggio è indefinito quand’anche esso si dia da un grado minore ad un grado maggiore di essere. Certo, vi è comunque un arricchimento, dentro questa rivoluzione continua, dentro questi movimenti dell’essere. Ma quando riusciremo a dare un senso collettivo e una definitiva logica compiutezza a questo processo? Quando la soddisfazione e la gioia etiche si sovrapporranno all’etica della ricerca e della lotta? Io non vedo risposta. Siamo giunti al punto che nella scissione che domina questo mondo, nelle dinamiche che contro l’ontologia etica sono messe in atto dal potere, questa istanza e questa urgenza di mito, sono mistificate nella miseria del media. L’illusione falsa viene opposta all’immaginazione vera. Così come il tempo dell’uno, dell’organizzazione e del potere vengono opposti al tempo dei molti, della comunità e della potenza. Una lotta mortale si sviluppa fra queste opposte tendenze - e noi abbiamo visto come questa lotta mortale sia inserita alla stessa radice dell’essere - laddove la contingenza, nella sua assolutezza, costituisce assoluta mancanza di fondamento e radicale possibilità di alternativa. Di vita o di morte. Di essere o di non essere. Un’estetica

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della ragione è tuttavia, proprio per questo, oggi possibile – e, contrastando ogni pretesa analitica, è con tutta probabilità possibile progettare, a partire da quell’estetica, determinazioni dialettiche.

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