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Capitolo Secondo
<< Metus-superstitio >>: ossia sulla
produzione di soggettività nel capitalismo maturo.

1. Il concetto di sussunzione reale e il problema dell’analitica.

Il processo di sussunzione reale della società nel capitale ci restituisce a società come un enorme involucro di atti circolari ed uniformi. Noi viviamo dentro quest’ordine, dentro questa << Umwelt >> ordinata. La ricerca storica si combina qui con la ricerca teorica nel dare, di questa forma della società, il quadro compiuto. E mentre la ricerca storica ci permette di seguire l’intreccio delle varie funzioni sociali ed il loro costituirsi in un tutto unico il confondersi del lavoro produttivo e del lavoro improdutivo dentro un circuito del valore che ne toglie la differenza, - la ricerca teorica ci propone il problema della sovrastruttura e ci mostra come il rapporto, altre volte evidente, con l’infrastruttura, sia ormai definitivamente concluso. Concluso dentro un’indifferenza materiale che, se permette di cogliere la genesi delle due formazioni materialmente ce le dà completamente unificate, indistinguibili, inseparabili << Da Marx ad Althusser >> la teoria marxista ha descritto la crisi del rapporto struttura-sovrastruttura mostrando lo sviluppo del processo già indacato. Da ultimo Althusser, descrivendo il funzionamento delle apparecchiature ideologiche dello Stato, ha ampiamente mostrato come questi momenti cosiddetti sovrastrutturali fossero essenziali alla riproduzione della società capitalistica in quanto tale. Ma le indicazioni di Althusser, per quanto corrette, non sono sufficienti a descrivere la situazione determinata nella sussunzione reale. Qui il reciproco compenetrarsi del vari livelli di produzione, delle merci così

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come delle norme, diviene totale. Quella che già si chiamava sovrastruttura, ovvero gli elementi ideologici, teorici, dottrinali, ecc. ecc. che descrivevano la realtà registrandone in maniera mistificata il riflesso e riproponendolo efficacemente verso e contro l’empiria - ora vive una vita completamente interiore allo sviluppo delle strutture produttive.

Quest’orizzonte che abbiamo dinnanzi, questa << Umwelt >> nella quale siamo immersi, non permettono di operare fini distinzioni: certo gli apici delle drminazioni, più empiriche o ideologiche, possono essere sempre indicati ma la determinazione fondamentale è quella della compenetrazione e dell’interna articolazione. Tutto questo ha un risvolto pratico, immediatamente pratico. La nostra società è organizzata per questa confusione di livelli per mistificare la sua totalità produttiva e gli antagonismi che questa totalità reggono. Gli strumenti di potere e i momenti normativi, da questo punto di vista, sono completamente interni al sociale. Si potrebbe dire che il sociale non potrebbe esistere - nella forma, è ovvio, adeguata al grado di produttività attuale - se questa compenetrazione degli elementi di comando e delle regole normative, alle articolazioni del sociale non fosse data. Ma vi è di più. Non solo il sociale è genericamente assunto nel meccanismo di capitale, non solo le apparecchiature ideologiche di Stato diventano fondamentali nella riproduzione ordinata della società, non solo infine la produzione di merce e di norme si articola e si confonde sul livello sociale: non solo tutto questo dunque, - la società della sussunzione reale si caratterizza anche come tentativo di produzione diretta della soggettività. C’è un nesso evidente fra determinazioni strutturali e determinazioni sovrastrutturali, che attraversa la soggettività. Tutto questo è stato ampiamente sottolineato nella teoria. Ma oggi ci troviamo di fronte a ben altro, poiché questo nesso (che interpreta e veicola la forma specifica del comando capitalistico) tende a costituire la soggettività. La costituzione capitalistica della soggettività diviene così momento centrale nella fase della sussunzione reale. Avevamo detto << da Marx ad Althusser >> per descrivere la crisi e le modificazioni del rapporto struttura e sovrastruttura, - ora possiamo dire << Da Althusser a Marx >> per indicare quanto si sia approfondito il rapporto di produzione della soggettività: è come una nuova accumulazione

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primitiva; come in quella, in questa fase di sussunzione reale, si costruiscono non solo le condizioni della riproduzione sociale ma anche gli attori, i portatori, i soggetti di questa produzione. Come in quel Marx dell’accumulazione primitiva, così qui la totalità del quadro è indistinguibile dalle componenti. Questo quadro compatto si presenta sovente come mondo della comunicazione, come complesso di strutture informatiche, come insieme meccanico-razionale di una strumentazione intelligente del controllo e della produzione.

Ora, questa situazione presenta alcune difficoltà, che non possono essere trascurate dall’analisi. Intendo dire che questa << Umwelt >> schiaccia, per così dire, la possibilità della ricerca sulla linearità, e la disorienta nella circolarità dei nessi fra singole emergenze soggettive. La stessa emergenza di un punto di vista critico sembra da ciò vietata. Ci troviamo quindi di fronte a delle posizioni che, nel tentativo di resistere all’indifferenza, spesso organizzano la prospettiva di ricerca e quella di intervento in termini volontaristici, - per esempio, in termini di rivendicazione di autonomia del punto di vista scientifico. Vediamo un caso. E’ fuori dubbio che, se nella situazione data (sussunzione reale) la forma valore e la sostanza di valore del processo di produzione tendono a sovrapporsi, l’analisi deve assumere la << Wertform >> e la << Wertsubstanz >> come elementi complementari nella configurazione della totalità determinata da analizzare. Ma dire complementari, non significa dire indifferenti - e con ciò accettare il blocco della ricerca. Infatti, pur tra queste complementarità ed indifferenze, un quadro del genere è normalmente molto ricco di impliciti: la determinazione infatti, nel mentre mostra i contenuti specifici dei meccanismi di produzione del valore, sta dal punto di vista degli strumenti tecnologici, sia dal punto di vista della pertinenza dei contenuti, - dall’altro si mostra come tendenza, come apertura potenziale di nessi produttivi generali, come articolazione di composizioni diverse della soggettività. Si tratta allora di approfondire il nesso tra ricerca di valore ed analisi materiale laddove invece, spesso, l’incapacità di procedere in questo senso, dovuta a permanenze ideologiche o a resistenze nei confronti della nuova prospettiva, implica una ricerca che fra valore e sostanza ripropone indifferenza o unità indifferenziate o confuse a connessioni analogiche, - sicché questo rapporto, in sé scoordinato

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non può che essere sempre di nuovo riportato all’analisi e alla pratica del dominio. Le teorie dell’autonomia del politico, da questo punto di vista, sono teorie attardate su una imperfetta comprensione degli effetti della sussunzione reale. Di contro, la nostra ricerca assume l’inerenza di strutture e di sovrastrutture, di forma e di sostanza, come assolutamente data. Ed è a partire da ciò che i meccanismi di produzione della soggettività nel capitalismo maturo potranno essere finalmente definiti.

Ma proprio nella misura in cui procediamo in questo senso tanto più il problema definitivo sarà quello etico. Vale a dire che non è l’analisi dei rapporti di potere che può permetterci la comprensione di questo mondo compatto che abbiamo dinnanzi, è bensì, a permetterci questo, l’inerenza della nostra volontà, della nostra lotta. alla composizione della società. Offe dice chiaramente << Il problema di una teoria dello Stato che si proponga di dimostrare il carattere classista del dominio politico consiste dunque nel fatto che, in quanto teoria, in quanto rappresentazione oggettivante di funzioni statali e del loro riferimento ad interessi, essa non è assolutamente attuabile. Soltanto la pratica della lotta di classe ne soddisfa la pretesa conoscitiva... Questa limitatezza della conoscenza teorica non è tuttavia determinata dall’insufficienza dei suoi metodi, bensì dalla struttura del suo oggetto. Questo si sottrae alla chiarificazione in termini di una teoria di classe. Semplificando si può dire che nella società industriale capitalistica il dominio politico è il metodo del dominio di classe che non si fa riconoscere come tale >>. Questa dichiarazione di Offe ci sembra fondamentale. Vale a dire che l’indifferenza del quadro sociale che si presenta nella sussunzione reale è semplicemente una mistificazione oggettiva: è anche un momento di falsificazione, meglio di conoscenza falsificata, nella prospettiva di dominio del soggetto. Ci scontriamo qui con un’operazione di mistificazione che investe il sociale intero, con un’operazione di mistificazione che tenta di sottrarre alla coscienza la possibilità di identificare le condizioni dell’antagonismo.

Questa sottrazione è sostanziale, è reale, - la mistificazione é non solo efficace ma produttiva. Vivere questo mondo della mistificazione produttiva, fino al punto nel quale essa investe la soggettività, è vivere una condizione eccezionale - evidentemente il problema della rottura di tutto questo, della definitiva insopportabilità

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di tutto questo, ci riporta ai grandi temi etici dell’essere e della sua distruzione o della sua riproduzione. Ma sull’argomento non vale certo la pena di fermarsi di nuovo. Quello che è fondamentale invece è notare quanto sostanzialmente pratico sia questo orizzonte della sussunzione reale. Le produzione materiali tendono verso la soggettività, abbiamo detto: ma bisogna aggiungere che questa soggettività va soprattutto considerata in termini di volontà. Sono le soggettività della lotta di classe quelle che qui sono assunte, mistificate, sottratte alle condizioni dell’antagonismo. Ora quest’analitica della società, di una società riguardata soprattutto dal punto di vista della volontà, dal punto di vista della possibilità di lotta e quindi della creazione della differenza, - quest’analitica è puramente e semplicemente il diritto.

Quando parliamo di diritto parliamo del complesso di norme attraverso il quale la società costituisce il suo ordine in riferimento alla produzione e alla riproduzione di se stessa. Intendiamo anche la serie di strumenti che sono messi in azione per garantire l’efficacia di questa normativa: ma non riduciamo a normativa a questi strumenti perché essa è infinitamente più larga e la sua efficacia infinitamente più estesa di quanto gli strumenti specifici dell’organizzazione giuridica possano il diritto, così come noi i assumiamo, è, dunque, un’analitica sociale della volontà. La definizione può essere immediatamente chiarita se risaliamo alla nozione di sussunzione reale ed agli effetti teorico-pratici che ne seguono. Vale a dire che il diritto ha, rispetto al mondo della sussunzione reale, lo stesso ruolo che in un universo di rappresentazioni individuali ha avuto l’analitica kantiana. Il diritto vale qui a fissare le condizioni di pensabilità di una società capitalistica matura. Solo la legalità, vale a dire la normatività diffusa ad ogni elemento costitutivo, permette di pensare la società. L’analitica è la produzione di una mediazione sociale nella quale tutti i rapporti sono ricondotti alla necessità della riproduzione sociale. Fondamentale è, ovviamente, il rapporto soggettivo. Ora, l’analitica non costituisce il soggetto - al soggetto è costituito dal rapporto produttivo in generale - ma l’analitica, la normatività, il diritto, si estendono lungo tutti i passaggi che costituiscono il teatro di azioni e reazioni, di rapporti di senso e di rapporti di significato, costitutivi della sussunzione reale - quindi

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il diritto è qui coestensivo, in quanto analitica, della sussunzione reale. Il fatto di essere qui coestensivo non significa essere identico (vedremo nel prossimo paragrafo perché). Quello che qui ci interessa di concludere e di sottolineare, è la densità del rapporto che il diritto ha verso, dentro, la società. E’ un vero e proprio investimento quello che il diritto opera: esso, in questo distendersi globale sul sociale, diviene una specie di abito senza il quale a società non può mostrarsi. Il diritto è ostensione del sociale, è il linguaggio della sua realtà profonda, è l’articolazione delle volontà che percorrono e costituiscono il sociale. Il diritto è una vera e propria kantiana analitica del sociale. Non ho più parole per esprimere questa inerenza se non quelle adeguate ad esprimere il rapporto tra il corpo e l’anima: figurazione certo non post-moderna ma fortemente intrisa di suggestione reale.

Detto ciò occorre aggiungere che questa analitica è la figura morta della società.

2. Analitica: il diritto come legittimazione.

E’ stato Hegel a mostrarsi il funzionamento del diritto come analitica della società civile. Quello che non ci si sarebbe aspettato - e che certo Hegel non si attendeva - è che il diritto man mano divenisse, da analitica, anatomia della società civile, usurpando così il luogo fin lì ricoperto dall’economia politica. Dico usurpazione perché il fatto di pervenire ad una tale interiorità nei confronti della società, non toglie al diritto le sue caratteristiche specificatamente e fondamentalmente analitiche: la società si è fatta astratta, i suoi movimenti si sono proiettati verso un’orizzontalità lineare, - il diritto qui dentro ci sta bene, è adeguato, usurpa una funzione alla quale l’economia politica, per il fatto di produrre questa società astratta, ha abdicato.

Il diritto segue l’evoluzione dei rapporti sociali di produzione. Ne è la forma. Ma, procedendo lo sviluppo sociale e proiettandosi questo verso quell’ordine particolare che è proprio della sussunzione reale, il diritto non è più solamente forma sociale, meglio, dell’ordine sociale, ma interviene strutturalmente in quanto funzione generale di legittimazione nella riproduzione sociale. La legittimazione assume sempre più figure processuali,

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procedurali, esecutive: la grande modificazione del diritto nel capitalismo maturo, la sua trasformazione funzionale, consistono appunto in ciò, nel fatto che il diritto non trascende più i rapporti sociali ma è ad essi immanente, è esso stesso un evento - quanto generale si voglia - del processo sociale. Oggi la forma della legittimazione è assolutamente specifica: vale a dire che essa si pone fra sussunzione reale e produzione di soggettività. Ciò significa che il diritto costituisce, in forma reale, i soggetti, dentro una rete di qualificazione delle loro azioni, - rete che non costituisce semplicemente realtà giuridiche, costituisce bensì il soggetto in quanto tale. Non v’è soggettività sociale senza che una serie di condizioni giuridico-istituzionali la configurino. Il diritto interviene dentro la società delimitando continuamente in maniera amministrativa o giurisdizionale possibili conflitti - ma non solo: costituendo gli stessi soggetti di un possibile conflitto, introducendo un sistema di valutazione che cerca di rendersi sempre più efficace.

E’ chiaro come questo processo, del diritto in quanto potenza sociale, rappresenti un morto paesaggio nella vita dello spirito. Si diceva << analitica >>: vi può essere qualcosa di più analiticamente deprimente di questo continuo tentativo di bloccare la dinamica detto spirito oggettivo? Il diritto è questo blocco - un blocco intelligente, una continua selezione dei materiali indistinti presentati sulla scena della sussunzione reale ed una loro formazione, un’identificazione - l’invenzione del soggetto. Ma una invenzione che gioca semplicemente i residui, i margini, le esclusioni. E’ chiaro allora che il processo di legittimazione in quanto insieme di delimitazioni, selezioni, esclusioni, del sistema di valutazione e della conseguente esecuzione amministrativa, tenderà sempre più a ripiegarsi e a chiudersi su se stesso. Ogni difficoltà di soluzione del processo non potrà che spingere verso la drammatizzazione del momento esecutivo - stato d’emergenza, situazione di necessità ecc. ecc. Ogni eliminazione di possibilità corrisponderà ad una tensione verso un’autolimitazione, un’indipendenza, un’autosufficienza del potere. La necessità di imporre un meccanismo di regolazione che sia un meccanismo regolare, costante, continuo - questa necessità spingerà continuamente verso quell’essenza del comando costituzionale che, con esagerazione linguistica ma con profonda adesione al reale, Carl

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Schmitt ha chiamato << dittatura >>. Il diritto è dunque latenza di dittatura, o meglio dittatura mistificata. Questa essenza gli deriva dal fatto di essere completamente interiorizzato nella società ma, in queste condizioni, di selezionare unilateralmente l’insieme delle potenze sociali. Il diritto, nella sussunzione reale, è di questa coestensivo - ma non è identico ad essa. Non è identico ad essa perché è un sistema di selezione, una griglia di valutazione, un meccanismo di esecuzione. Non è identico perché coglie coestensivamente il tessuto sociale della sussunzione reale ma solo nella figura negativa che questa permette. Vale a dire che il diritto organizza la continuità lineare dei processi, i compromessi e le articolazioni di valore che nel sociale si possono trovare - ma non riesce ad afferrare, né lo desidera, i nuovi contenuti collettivi che questo sociale attraversano, ed in generale non riesce a cogliere il passaggio dall’astrattezza del rapporto ad una soggettività superiore. Il diritto produce soggettività solo in quanto essa si presenti come limitazione. Limitazione anche dell’astratto. Il diritto teme a potenza della soggettività - della soggettività ha bisogno solo in quanto materiale su cui costruire la complessità dell’ordinamento. Insomma il diritto è pura e semplice analitica, tanto più povera e morta, quanto più lo sviluppo astratto del lavoro si è affermato come potenza.

Abbiamo detto che il diritto è coestensivo della sussunzione reale ma non identico ad essa, anzi, che esso è predisposto alla rottura degli equilibri dinamici che si sono formati nel processo di maturazione della sussunzione reale. E’ noto come sono andate le cose. Nel capitalismo maturo lo schema di regolazione dello Stato e della società insegue l’adeguamento continuo del rapporto fra forze produttive, consumi produttivi e stabilità politica. La regolazione è possibile quando essa avvenga su uno schema di valori unificato (o in ogni caso non immediatamente contraddittorio) a partire dall’identificazione di soggetti abilitati alla gestione del rapporto, alla contrattazione, insomma alla partecipazione al processo di legittimazione. Il fatto che, in questo schema, il più alto ideale sia quello di un’alla produttività e che la ripartizione del profitto fra soggetti produttivi si svolga secondo una regola che introduce nella riproduzione sociale, e dentro questa amplifica, i benefici della riproduzione secondo moltiplicatori adeguati allo sviluppo - il fatto insomma che la legittimazione

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marci a pari passo con la continua riforma dei rapporti di produzione, esalta in maniera importante la funzione del diritto nella sussunzione reale e la mostra come articolazione necessaria di questa.

Ma non appena elementi di crisi si rivelano, non appena il diritto è richiamato in maniera stringente ad esercitare la funzione analitica, ci troviamo dinnanzi ad una serie di eventi - meglio, di operazioni - che ampiamente caratterizzano il funzionamento parziale del diritto nella nostra società. Voglio dire che la legittimazione analitica post-moderna trova una sua specificità quando, scoprendosi coestensiva della sussunzione reale, rivendica la propria identità, quindi la separatezza dalla propria funzione. Su tre punti si sviluppa questa ricostruzione della specificità analitica del diritto: in generale, sulla ripresa, reinvenzione, ristabilimento, dell’egemonia della forma sopra, contro la sostanza sociale. In secondo luogo la legittimazione analitica è portata, nel sistemismo, contro l’unità progressiva del sistema dei valori, e, terzo, nel neo-contrattualismo, contro il sistema dei soggetti che promuovevano lo sviluppo giuridico verso l’identità di produzione e riforme.

Accenniamo alle tre forme nelle quali vengono sviluppandosi questi fenomeni, dal punto di vista storico: procedendo nella ricerca le vedremo con molta maggiore attenzione, basti qui descrivere la condizione generale del loro presentarsi. Ora, è particolarmente interessante la forma nella quale si mette oggi in movimento quel processo che abbiamo detto di scissione fra forma e sostanza della regolazione sociale. E’ una specie di nuovo trascendentalismo quello che qui appare. Nella filosofia tedesca contemporanea, in particolare, nella crisi e negli esiti della scuola di Francoforte, noi soprattutto possiamo vedere come si sia sviluppata questa rinascita trascendentalistica. La ricerca di una fondazione critica ha cominciato ad impiantarsi come un bisturi dentro l’unità dell’orizzonte della sussunzione reale. Ma invece di trovarvi antagonismi, invece di sperimentare e di riassorbire nella scienza quanto in realtà stava accadendo - la crisi, l’impossibilità di rendere consensuale il nuovo modello di sviluppo ecc. - invece dunque di far ciò, la fondazione critica ha separato la forma dalla sostanza di valore: << ipertribunalizzazione >> della forma di contro alla << subtribunalizzazione >> della sostanza

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di valore. Vale a dire che, mentre l’orizzonte trascendentale della forma era fissato in maniera sempre più stabile, sempre più definitiva, d’altra parte invece la sostanza di valore era respinta verso i livelli più bassi dell’empiria. La sintesi che, nella sussunzione reale, si era data, qui scompare. Una costituzione unilaterale del reale viene così sempre meglio definendosi. Questa costituzione unilaterale è ottenuta attraverso la sostituzione formale del reale medesimo. L’essere è definito nella forma della sostituzione. I processi di sussunzione reale sono trasfigurati nell’immagine della sussunzione - diritto, moneta, rapporti informatici, simulacri sociali, cifre dell’automatismo sociale, sacro, violenza della forma eec. La sussunzione ormai ci si presenta solo secondo questa figura, solo entro questo quadro, prospettiva, orizzonte. Vedremo, procedendo nella ricerca, come il formalismo si sia modificato in questo periodo di sviluppo, - ma come questo sviluppo non sia stato altro che realizzazione del distacco fra forma e sostanza del valore.

Un secondo momento nell’evoluzione del diritto verso funzioni dirette di costituzione analitica reale (nella fase della sussunzione) ci è data in quell’episodio dello sviluppo della scienza del diritto che si richiama al sistemismo. Ora, la finalità essenziale di questa teoria è quella di cercare una forma della normazione giuridica (e sociale) entro cui l’autonomia e l’insistenza autentica dei valori, e del loro combinarsi in un’unità dinamica, siano distrutte. Quello che interessa è determinare una serie di punti di riferimento che si oppongano, che neghino, che trasfigurino, ogni fondamento ontologico dei valori. Esiste un antagonismo sociale ed esistono schemi teorici di organizzazione dinamica-normativa di questo? Non devono esistere. Gli antagonismi, qualora si diano, non possono essere che funzioni o soluzioni di processi restaurativi dell’ordine, meccanismi in grado di neutralizzare, di volta in volta, ogni complessità antagonista. Il diritto dovrà funzionare come strumento che sposta continuamente, costantemente, i termini di ogni problema ontologico e trasforma temi potenzialmente conflittuali in struttura di compatibilità. I soggetti vengono qui prodotti, esattamente come sono prodotti i valori. Quale terribile vitrea sostanzialità hanno questi soggetti. Quello che interessa è ridurre il processo di sussunzione reale ad un’immagine naturale - dove tutti i rapporti reali siano dissolti

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e gli antagonismi ridotti a fluttuazione - su questa evoluzione, senza soluzione di continuità, il controllo fila via, come appunto la volontà burocratica di dominio vuole.

Non molto diverso, infine, è il terzo esempio che nel seguito della ricerca ricorderemo. Se nel sistemismo il tema fondamentale è quello della permanente fluidità del processo e quindi dell’assoluta interscambiabilità dei valori, nel neocontrattualismo si pone come egemonica la volontà di far circolare la soggettività dentro uno schema paritario (di eguaglianza, di ricambio, di commutazione) che di questa soggettività toglie ogni caratteristica materiale. E’ chiaro anche in questo caso che la negazione del carattere ontologico dei soggetti comporta la massima formalizzazione dei valori. La comunicazione riflessiva, la commutazione dei soggetti nel neocontrattualismo esige valori di garanzia che siano assolutamente formali. Non si può scegliere se non l’equivalente: questo paradosso del valore è, nel neocontrattualismo, l’equivalente della contingenza dei soggetti nel sistemismo.

Dunque - su tutto ciò torneremo. Basti qui cogliere quello che abbiamo più volte detto essere ormai la caratteristica fondamentale del diritto come legittimazione, del diritto come analitica della sussunzione reale. I caratteri di morte che la funzione giuridica si porta dietro, risultano a questo punto quanto mai evidenti. Il diritto è la chiave forzosa che deve valere ad escludere la soggettività dal tessuto sociale della sussunzione reale. Il diritto è il modello di produzione della soggettività laddove la sussunzione reale sia stata assunta come semplice orizzonte di produzione e di organizzazione sociale pacificita. E non basta opporsi a questa onnivora teoria dei sistemi, quale nel diritto è manifestata, proponendo una semplice mediazione (naturalmente sempre sul terreno trascendentale) fra teoria dei sistemi e teoria dell’agire.

Occorre invece dare sostanza normativa, polemica ed antagonistica, alla critica: alla critica della ragione strumentale che qui, nella definizione di diritto come analitica dello spirito oggettivo, trionfa completamente. Posizioni che non assumano il punto di vista ontologico, che mantengano i processi di mediazione che sono propri del trascendentalismo, non riusciranno mai a definire la sostanza etica del processo critico. I soggetti continueranno ad essere considerati come semplici residui, non avranno mai la possibilità di esistere se non in quanto colonizzati

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dal sistema - elementi sí sempre irrisolti, ma mai capaci di costruire alternative. Questa è una manovra sofistica sul piano teorico - sul piano dell’esecuzione del diritto diviene una manovra repressiva. La razionalità strumentale vince sempre quando la scienza, e le funzioni dell’organizzazione sociale, non vengono confrontate con il reale. La mediazione, questa malattia mortale del pensiero filosofico, questa criminale intenzione del pensiero giuridico, deve scomparire dall’orizzonte della scienza.

Viene così configurandosi il terreno sul quale l’analitica, funzione centrale del sapere trascendentale, tenta di configurare un quadro del reale fatto a sua immagine e somiglianza.

3. Il modello formalistico: Hans Kelsen.

Riconsiderare il pensiero di Hans Kelsen, dopo aver proposto il problema del formalismo nei termini in cui abbiamo fatto nel paragrafo precedente, può sembrare inutile preoccupazione archeologica. Non è vero, perché il genio di Kelsen consistette appunto nel percorrere un cammino che, dal vecchio formalismo kantiano, portava ben oltre i limiti o le estreme estensioni di questo: anticipava quella formalizzazione del reale che oggi consideriamo propria della sussunzione e del postmoderno. In Kelsen il formalismo si presenta come sovrastruttura della realtà - e però, fin da subito, esso si arma di un’autonoma produttività, sicché l’avventura intellettuale di Kelsen descrive non solo una vicenda soggettiva ma piuttosto la tendenza storica del formalismo.

Formalismo come sovrastruttura, dunque. Sovrastruttura di un contesto socio-economico, forma logica, nella quale questo contesto è analizzato ed ordinato. Ma, se questa impostazione bastava a Stammler e ai suoi seguaci, se poteva essere condizione egemone nel revisionismo social-democratico ottocentesco, non bastava certo a Kelsen. La sovrastruttura è in Kelsen trascendentale. Come nella scuola di Marburg il trascendentale è produttivo, - produttivo di schemi della ragione, di tendenze regolatrici, di tipologie formali del linguaggio e della scienza. Eccoci dunque a scoprire non tanto una base quanto una sorgente del formalismo, ad identificare cioè il punto sul quale la regolazione del sociale si manifesta esplicitamente come gestazione di una

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rete di comando. A partire da ciò il neokantismo kelseniano si diluisce in un << Opus perpetuum >> che assume varie figure, tutte agganciate al presupposto neokantiano ma tutte anche capaci di sganciarsi da questo e di svolgersi, per successive stratificazioni, verso risultati imprevisti. In una prima fase, il pensiero kelseniano forma lo schema di lettura (e di organizzazione) del diritto sulla duplice funzione della purezza logica della teoria e della sua fondazione trascendentale (Grundnorm). Ma questo non basta: l’analitica deve svolgersi nello schematismo, la teoria pura del diritto deve accostare ad una statica una nomodinamica: insomma, il diritto deve produrre la sua realtà. Eccoci dunque, su un primo punto essenziale, al discoprimento dei meccanismi del formalismo. Lungi dall’essere semplice registrazione (sovrastrutturale o meno), la forma è un motore, un orizzonte, uno schema di comprensione. In realtà, la forma è un meccanismo di produzione sistematica. La Grundnorm produce il sistema. Il sistema si forma attraverso un meccanismo di gradi - Stufenbau - ed ogni grado è capacità di produzione del successivo. Gerarchia o meno, qui è egemone l’idea di produzione. Le critiche rivolte al primo Kelsen, ed appuntate contro la vuotezza del suo formalismo, sono pure e semplici banalità. Il pensiero di Kelsen è sempre un pensiero della produzione e la chiave che lo spinge ad una continua trasformazione, è il desiderio di cogliere e trattenere nella forma, la realtà. La validità del sistema delle norme deve farsi efficacia giurisdizionale delle stesse - la norma deve mordere il reale. Certo, questo senso della realtà che soggiace e regge l’elaborazione e lo sviluppo della teoria pura del diritto, non deve indurci in errore. Esso non è altro dal diritto, neppure come strappo, neppure come anticipazione del diritto: il senso della realtà deve essere prodotto dal diritto. Questo è il concetto del formalismo kelseniano, - una macchina produttiva, lanciata sulla realtà, e che a un certo punto non si pone più il problema di coniugarsi con il reale, si pone piuttosto il problema di produrlo, di sostituirlo attraverso la produzione, di creare qualcosa che sia simile al concetto che la teoria ha di se stessa e del diritto.

Questo paradosso è quello di tutta l’analitica moderna. Ma qui assume una tale incredibile potenza, e violenza di espressione, che davvero c’è da rimanere sbalorditi. Soprattutto quando, continuando a rielaborare e trasformare il suo sistema, prima

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Kelsen proporrà una concenzione realistica e processuale, poi una concezione decisionistica della norma e del diritto. Per concezione processuale intendo un disegno del funzionamento del diritto che ricalca la dinamica procedurale della sua amministrazione nei sistemi giuridici aperti. Kelsen lavora espressamente su queste ipotesi fino alla definitiva redazione de << La dottrina pura del diritto >>, probabilmente il più perfetto esempio di come il formalismo possa fingere se stesso quale orizzonte ontologico! Ma, ancora, tutto questo non basta. L’ultimo Kelsen, quello della << Teoria generale delle norm >>, cercherà di sviluppare non più semplicemente un’ipotesi di concordanza fra sistema e realtà, fra dottrina pura e determinazione reale, fra validità ed efficacia: di contro, la potenza stessa della formazione della norma, in quanto fatto trascendentale, sarà sviluppata come possibilità di costruire il sistema.

Ora, se noi riprendiamo questo schema di sviluppo del pensiero di Kelsen e cerchiamo di comprenderlo come filo rosso di un processo storico di crisi e trasformazione del diritto, le cui fasi finali oggi sperimentiamo - se dunque ci muoviamo in questo senso ci accorgeremo che, come abbiamo detto, il formalismo kelseniano è qualcosa di molto più largo di una pura e semplice trascrizione giuridica del formalismo kantiano. Qui il formalismo è piuttosto vissuto dentro la realtà del processo storico che conduce dalla fase di << sussunzione formale >> del lavoro e della società nel capitale alla fase di << sussunzione reale >>. Che cosa significa questo? Significa che, in concomitanza con questo passaggio storico e assecondando le tendenze che in esso vivono, Kelsen interiorizza sempre di più e con sempre maggiore chiarezza il problema della produzione e della realtà giuridica, della validità e dell’efficacia. La sussunzione reale è, come ormai lungamente abbiamo sottolineato, quel momento nel quale la formalità dei rapporti di produzione viventi all’interno di una società è sottoposta all’egemonia del modo di produzione capitalistica. Nella sussunzione reale la forma si fa sostanza. La teoria pura del diritto non ha più quindi bisogno di una Grundnorm che faccia funzionare la sua egemonia solo in termini parziali e a partire da un fondamento di trascendenza. Nell’ultima fase del pensiero di Kelsen, ogni norma e una Grundnorm, il rapporto fra validità ed efficacia è per così dire rovesciato, e l’efficacia anticipa

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la validità, ogni norma è in qualche modo norma trascendentale, perché la sua fattualità non è riconducibile ad altro che alla propria esistenza. La teoria del diritto sfiora il decisionismo. Ma dello tutto questo, resta il fatto che quel reale è comunque dinamico. Il sistema produttivo, la sua potenza formativa vengono fatti combaciare con la realtà. Efficacia e validità che si sono talmente confuse che vivono ormai insieme la tensione produttiva del reale. Il formalismo kelseniano è un’ideologia della produzione.

E’ interessante, meglio, fondamentale questo riferimento a Kelsen. Probabilmente se il suo rapporto non si fosse fatto talmente importante nella storia del pensiero giuridico e politico contemporaneo, sarebbe stato difficilissimo elaborare, in positivo o in negativo, una teoria sistemica del potere. Quello che colpisce è tuttavia soprattutto, nel pensiero di Kelsen, la scoperta della impossibilità di evitare la produzione e, come abbiamo sottolineato, la capacità di far seguire a questa scoperta un sistema produttivo sempre più determinato, sempre più capace di rispecchiarsi nel reale. In Kelsen dunque noi troviamo completamente sviluppata quella rottura tra forma e sostanza del processo di valore che si pone come condizione fondamentale della trasformazione della teoria sul terreno della << sussunzione reale >>. Ma, come abbiamo visto, questa rottura è anche uno spostamento di livelli, un dislocamento. Dentro la realtà trasformata nel processo di spiazzamento, di dislocazione generale, dentro il linguaggio che registra questo orizzonte ed è, su questo strato della realtà, riorganizzato in termini di senso e di significato, - ebbene, qui Kelsen ricostruisce una nuova unità, che è un circolo di validità e di efficacia, di normatività e di decisionismo, di diritto e Stato. Il formalismo kelseniano, dopo aver vissuto una vicenda gerarchica che lo ha spinto di grado in grado, attraverso crisi successive, verso un nuovo livello di realtà, ricostruisce e riorganizza ora questo livello come circolo. Un circolo che è fatto muovere dalla materialità degli eventi che in esso sono registrati - potremmo dire che è la produzione ad essere la chiave di volta del movimento nell’orizzonte formalistico kelseniano.

Vi sono interessanti analogie che a questo proposito si possono porre: fra queste, soprattutto importante mi sembra quella che permette di confrontare movimento e figura del pensiero di

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Kelsen e di quello di Keynes. Vale a dire che in entrambi questi autori la preoccupazione sistematica di controllare la realtà nel sistema (<< Dottrina pura del diritto >> per Kelsen, << Trattato della moneta >> per Keynes) è spinta ad una tensione massima, che configura l’astrazione del reale nella forma del sistema. Ma, pervenuti a questo punto, spinta avanti l’analisi fino a determinare il salto della dislocazione, gli autori si guardano attorno - scoprono allora che questo sistema dislocato corrisponde perfettamente al reale. L’operazione di innovazione scientifica ha riconquistato la realtà, la fiducia nella forma ha restituito la storia. Abbiamo dunque un secondo Kelsen ed un secondo Keynes (della << Teoria della norma >> e della << Teoria generale dell’occupazione e della moneta >>) nei quali questo rovesciamento che paradossalmente procede all’interno, investendo la tensione sistematica, è attuato fino in fondo. E la circolarità delle proposizioni e dei soggetti sistematici è garantita da un autonomo interno movimento - che è quello sollecitato dal reale. In questo secondo periodo del pensiero di Kelsen, - possiamo ora smettere l’analogia con Keynes - non vi è solo dunque nostalgia della realtà e quasi un senile riagganciarsi ad essa (come alcuni interpreti malevolmente suggeriscono) - vi è bensì la ripresa in carico del compito di spiegare la realtà giuridica e le trasformazioni dello Stato dal punto di vista della loro effettualità. La rottura fra forma e sostanza del processo di valore è quindi, per così dire, superata... naturalmente tutto questo si rivela essere solo una tendenza. Sarebbe senz’altro esagerato ritenere che il realismo giuridico - e soprattutto un realismo giuridico tanto sviluppato da essere capace di interpretare l’orizzonte della << sussunzione >> - divenga oltre che egemone, esclusivo nell’ultimo Kelsen. Al contrario è certo che tutti i passaggi in questa direzione, non riescono a togliere al sistema quel radicamento formalistico che gli è proprio. Ma quello che a noi interessa, è sottolineare come qui venga sviluppandosi quel dislocamento del terreno della considerazione scientifica, quella catastrofe del paradigma, che, nei paragrafi successivi, vedremo dominare l’analitica giuridica della << sussunzione >>. Per dirla in altri termini: Kelsen riconquista, nell’ultima fase del suo pensiero il primato della legittimità contro l’eminenza della legalità.

Perché è attorno a questi due concetti che dobbiamo portare la nostra attenzione. Legittimità è categoria dell’efficacia, è

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determinazione fondamentale del sistema, - mentre legalità è validità normativa, è l’orizzonte formale del medesimo. Ora la circolarità di questi due termini si presenta come asimmetrica: nel formalismo quest’asimmetria vede la forma prevalere sulla sostanza del valore. Ora Kelsen inverte i termini, - ma questa inversione non si fa a scapito della forma: si fa - tenendo conto delle nuove condizioni del circuito giuridico - ricalibrando il rapporto fra forma e contenuto, fra legittimità e legalità, che resta si asimmetrico ma è riequilibrato rispetto ad un concetto di legittimità estremamente ampio. L’analisi del pensiero di Kelsen ci propone dunque l’amplificazione dell’orizzonte formale, ci propone un vero e proprio meccanismo di produzione reale a partire dall’approfondimento dell’analisi della forma e da un rovesciamento dell’asimmetria fondamentale del rapporto giuridico. Un nuovo reale è quello che ci è consegnato.

4. Il modello contrattualistico: Rawls.

Dobbiamo andar al di là del Welfarestate: ma verso dove? E’ fuori dubbio che lo Welfarestate sia in crisi: ma che cosa sostituirgli? E’ certo che la situazione generale socio-economica si è trasferita e trasfigurata nella dimensione della << sussunzione reale >>: quail saranno gli assetti politici e giuridici che ne seguono?

E’ con queste questioni che si misura il neocontrattualismo anglosassone nell’ultimo ventennio. Un neocontrattualismo che assume varie figure, o puramente liberali e giusnaturalistiche (alla Nozick) oppure socialdemocratiche e consensualistiche (alla Habermas) - oppure, infine, propriamente neocontrattualistiche alla Rawls. Ora, a noi interessa soprattutto cogliere quel memento attorno al quale l’analitica del diritto, un’analitica radicata nella società della << sussunzione >>, comincia a configurarsi. E subito vedremo come il risultato del pensiero kelseniano sia qui assunto, come il suo formalismo sia qui utilizzato - ma vedremo anche come, dentro il nuovo livello di realtà che è assunto, vengano fatti vivere valori e posizioni ideologicamente pregnanti, volte a distruggere, veramente ab imis, ogni permanenza del Welfarestate.

La crisi del Welfarestate è dunque considerata irreversible.

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Al Welfarestate va opposta una concezione che sappia far valere un’ideologia individualistica nel sistema del diritto. Questo individualismo deve coniugarsi ad un orizzonte pluralistico ed egalitario e concorrere alla formazione di uno schema di legittimazione del diritto e della società economica, così come essi sono dati nello sviluppo capitalistico. Il contrattualismo non si propone di costruire schemi di regolazione, si propone piuttosto di determinare le condizioni affinché possa essere organizzata la società nel periodo dopo lo Welfarestate. Si badi bene: c’è un individualismo conservatore, legato a valori immobili, patrimoniali e monetari,. e c’è un individualismo egalitario: fra questi il contrattualismo sceglie, e sceglie decisamente, nel senso del secondo polo dell’alternativa. C’è poi un utilitarismo borghese e un utilitarismo che riguarda le finalità sociali complessive: anche in questo secondo caso il contrattualismo pretende di scegliere il secondo dei due principi. Sicché esso ritiene di potere costruire uno schema di equilibrio sociale orientato dal principio di eguaglianza, sorretto da un principio di reciprocità formale, sviluppato in termini sostanzialmente riformistici. E’ chiaro che mai come in questa posizione risulta evidente la paternità filosofica del kantismo e di una certa neokantiana fenomenologia: le figure di orientamento e di tendenza che sono definite nel neocontrattualismo stanno infatti a mezzo fra il formalismo dell’intelletto e lo schematismo della ragione.

Con ciò un certo tipo di dinamicità formale è impressa al circuito: laddove tuttavia deve essere chiaro che non v’è soggetto se non come imputazione formale del circuito stesso. Caratteristica del neocontrattualismo è il fatto di distruggere ogni soggettività indipendente, di considerarne la possibilità solo in termini di aggregazione formale. E’ difficile riassumere brevemente la complessità di mezzi che viene in proposito messa in atto per raggiungere la descrizione di uno schema di << reflective equilibrium >> sociale-giuridico. Da un lato giocano, nel senso di questa costruzione, gli elementi già ricordati della filosofia kantiana e fenomenologica - dall’altro giocano soprattutto le sollecitazioni che derivano dalle correnti anti-utilitaristiche degli anni ‘30 (Lionel Robbins, Hayek ecc.), e soprattutto che pervengono agli autori del contrattualismo da parte delle scuole scettiche e realistiche di Pareto, di Arrow ecc. Insomma i contrattualisti cercano di

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identificare un terreno sul quale dei soggetti fittizzi, eguali, equivalenti si confrontano l’uno con l’altro, determinando all’interno di questo confronto, e come riflessione su questo confronto, la loro costruzione come soggetti giuridici. Vale a dire che l’individualismo contrattualista vuole distruggere ogni referenza ontologica del soggetto. Ma non avevamo noi stessi sostenuto che l’unico livello interessante per l’analisi era appunto quello sul quale l’astrazione trionfava e il complesso delle relazioni socio-politiche e giuridiche si offriva solamente come contesto di equivalenze! Certo - ma questo non significa non cercare di reidentificare, una volta riconosciuto e fissato questo livello come terreno adeguato della ricerca, gli antagonismi soggettivi. Il problema non è quello di negare la trasformazione del reale che abbiamo dinnanzi - è bensì quello di cogliere in questo reale modificato, il riproporsi dell’antagonismo, il funzionamento dei meccanismi della soggettività. Sembra chiaro allora che la teoria neocontrattualistica, a fronte della crisi del Welfarestate e della prassi di regolazione giuridica del medesimo, pur riconoscendo che questa crisi è definitiva, tenta semplicemente il ricorso ad un nuovo formalismo - nello sforzo di comprendere analiticamente il nuovo. Ma è appunto questo il momento critico: quando il contrattualismo nega la possibilità di considerare i soggetti della contrattazione riformistica se non dal punto di vista di un’identificazione riflessiva e formale. Occorre andare a fondo su questo concetto di riflessività. Esso ha lo spessore della profondità, ha una liquida densità. Da esso non sembra possibile uscire. Detto tutto ciò risulta evidente che questa specie di formalismo al quadrato, questo riflettersi della forma in se stessa definisce esattamente la sostanza del problema e non ne costituisce la soluzione. Che cos’è infatti l’orizzonte della << sussunzione reale >> se non appunto questo ingigantirsi ed ispessirsi dell’orizzonte della forma? Ma, laddove lo stesso Kelsen comprendeva che dentro questo processo si definiva una nuova realtà, i neocontrattualisti godono nel giocare formalisticamente gli elementi di questo nuovo complesso. Davvero non può nascere determinazione in una notte siffatta - qui << tutti i gatti sono bigi >>.

Eppure questa insistenza sulla definitività della crisi di regolazione del Welfarestate, questa descrizione così approfondita della società attuale come insieme formale di relazioni riflessive, potevano

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permettere di inquadrare i nuovi elementi di conoscenza e di impostare una soluzione giuridica adeguata. Qui invece ci troviamo di fronte alla vittoria del momento di mistificazione. La legittimazione del potere dovrebbe nascere, in questo schema, dallo sviluppo ordinato delle relazioni formali - ma tutto ciò è pura e semplice mistificazione, e i valori formali non hanno certo la capacità di mordere criticamente la realtà, hanno al massimo la possibilità di veicolare lo stato di cose esistenti. Sicché, anche a questo proposito, sembra che il vecchio kelsenismo sia teoria, malgrado tutto, più scientificamente efficace: esso infatti sembra rappresentare il problema dentro un quadro dinamico e proporre la tematica dei coefficienti d’adesione dei soggetti ai principi della legittimità, in termini aperti ma, malgrado tutto, più definiti di quanto non faccia il contrattualismo.

E’ strano considerare il modo in cui la crisi dello Stato keynesiano si sviluppa fra questi autori. C’è infatti un’ostinazione nel negare la presenza di soggetti collettivi nello sviluppo della stessa crisi del Welfarestate - ostinazione davvero incredibile! Questa mancanza di concettualizzazione nei riguardi dei soggetti collettivi si regge fondamentalmente su due punti di vista: il primo consiste nel negare che in qualsiasi memento si possa dare un equilibrio sostanziale al rapporto di produzione, quando dentro questo rapporto si muovano soggettività collettive; il secondo punto consiste nell’affermare che non si potrà mai dare coerenza fra interessi dell’individuo e determinazioni collettive del soggetto. Sicché la stessa esistenza del contratto fra gli individui è sempre aperta alla crisi. La razionalità della produzione e la durabilità del contratti prevedono dunque l’autorità - ma dentro questa stessa previsione è escluso che ciò che deve essere garantito possa essere il garante - e la difficoltà insormontabile di costruire soggettività collettive ci costringe dunque a ripiegare sul formalismo. Ma è corretta questa impostazione? E chi garantisce che l’elemento fondamentale cui riferirsi sia l’individuo? Può mai funzionare un sistema produttivo moderno sulla base dell’individualismo? E che significato ha parlare oggi di contratti su base individuale? Se si parla di crisi del Welfarestate e di entrata in una fase di << sussunzione reale >> è appunto per porre il problema di una fondazione collettiva infinitamente più avanzata, per quanto riguarda la struttura del diritto e dello

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Stato! Eccoci dunque a cogliere quello che è il buco nero delle teorie neocontrattualiste nell’evoluzione della tematica della crisi del Welfarestate. Il formalismo che esse introducono è un passo indietro rispetto allo stesso formalismo kelseniano. L’unico contributo importante di queste correnti viene dalla forte caratterizzazione dell’orizzonte della << sussunzione >> che è il presupposto dell’analisi. Questo presupposto viene poi abbassato ad un intreccio di volontà e di intenzioni individuali. Ci è data cioè in forma mistificata, e solo in forma mistificata, la modificazione del quadro di riferimento. In forma mistificata, tutto questo ci è dato per una sola ragione: negare assolutamente l’esistenza del soggetto e la possibilità che rinasca antagonismo sul livello della << sussunzione >>.

5. Luhmann: il modello strutturale e la sua critica.

Riguardando al modello analitico che è costruito dalle teorie neocontrattualiste e connfrontandolo con l’impostazione sistemistica che adesso considereremo con cura, va subito detto che il neocontrattualismo si rivela essere una determinazione di passaggio, un fenomeno teorico transitorio piuttosto che una sicura conclusione del processo analitico stesso. Voglio dire che il neocontrattualismo rivela al suo interno una serie di componenti, che sono accostate più che sintetizzate, una serie di elementi tipici della tradizione anglosassone ed in particolare della sua variante conservatrice (non è tanto Locke, quanto Burke per intenderci). Il neocontrattualismo, nella sua fondamentale spinta verso l’appiattimento formale delle contraddizioni, verso un egalitarismo del tutto vuoto di pulsioni soggettive, vale in realtà a descrivere una serie di comportamenti diversi e a confondere le diversità, piuttosto che esaltarne un meccanismo di mediazione. Per riprendere la nostra terminologia (e quella marxiana) si potrà dire che il neocontrattualismo è una teoria giuridica del passaggio dalla << sussunzione formale >> a quella << reale >> che esso raccoglie gli elementi diversi di una tradizione composita per confonderli in un quadro sintetico, che ha bensì trovato una dimensione unitaria ma non ancora determinato l’efficacia di un unico motore. Stato e diritto vengono così reinterpretati dentro una fluida

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mélange di liberalismo, contrattualismo, federalismo e, insomma, di tutti quegli elementi che in qualche maniera hanno potuto caratterizzare lo sviluppo dello Stato liberale nell’ultimo secolo. Da questo punto di vista, e forse in tal modo correggendo delle affermazioni fatte nel paragrafo precedente, si può dire che qui permane una fondamentale tensione alla legittimazione, che essa si esprime attraverso queste resistenze ed insistenze tradizionali, che quindi l’egemonia della legalità sull’orizzonte della legittimità è comunque parziale e, in maniera latente ma reale, sempre insidiata.

Non così certo vanno le cose quando tocchiamo le teorie sistemiche. Il loro radicalismo configura definitivamente l’orizzonte del diritto nella << sussunzione reale >>. L’analitica è qui completamente sviluppata, è l’analitica di una cosa, di una formidabile morta potenza. Vi è un barlume di estetica trascendentale che si intravede alla base della monumentale costruzione analitica: è la definizione della contingenza delle relazioni sociali. Una contingenza, tuttavia, che non pone il problema di una determinazione e di una scelta ontologica che valgono a superarla; al contrario, questa contingenza è assolutizzata, ogni valore in essa circola in maniera completamente indifferente ed equivalente, nessuna selezione può essere ontologicamente definita, la circolarità è Completa e la tautologia, che su questa circolarità di referenze si forma, è anch’essa totale. Su questa base ci si pone il problema: << eliminare la tautologia nel sistema di autoreferenza: l’obiettivo risiede nell’autocatalisi nella riduzione della sfera del caso al momento della costituzione del sistema >>. Si vede quanto l’estetica trascendentale sia mero elemento di orizzonte, quanto il riferimento alla contingenza valga la pena ad identificare, in senso esclusivo, un rapporto verso la fatticità analitica. Il tramite della costruzione sistematica è la comunicazione: << la comunicazione è un processo necessariamente riflessivo che si integra in se stesso come comunicazione >>, << il Consensus è il telos della comunicazione >>. Tutto ciò per affermare infine che sono solo le dimensioni del senso quelle sulle quali le determinazioni della comunicazione includono la significanza di ogni fenomeno sociale ed escludono ogni rinvio al di là di questo orizzonte autoreferenziale.

L’illuminismo sociologico e giuridico di Luhmann diviene a

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questo punto lo strumento fondamentale per la costruzione del sistema, quando si tenga presente che questo illuminismo è la capacità di determinare connessioni formali, di semplificare il complesso, di costruire il sistema. Illuminismo è qui riduzione, ovvero la produzione di un orizzonte semplice, semplificato, che si ponga come condizione della logica sistemica. E’ incredibile come questo meccanismo totalmente formale cresca su se stesso, si espanda, si rafforzi. E’ una protesi della natura che domina la natura: << i concetti tradizionali di autoreferenza, di riflessività, di riflessione sono così trasferiti dalla teoria del soggetto alla teoria dei sistemi; essi sono trattati come strutture della realtà e la conoscenza appare allora nel sistema come un caso del processo di autoastrazione della realtà >>. Il meccanismo epistemologico che regge questo sviluppo conoscitivo interpreta una funzione fondamentale, che è quella della neutralizzazione degli antagonismi, meglio, della distruzione di ogni orizzonte di valore, della destrutturazione completa di ogni determinazione ontologica propria dell’universo dell’autodeterminazione (del mondo dell’astrazione del lavoro). Così si chiude il processo costitutivo dell’orizzonte... e chi può più dire di quale orizzonte? Orizzonte della legittimità o della legalità? Quando ogni elemento ontologico è chiuso in una indifferenza che è totale nei confronti di altre possibilità, quando la dinamica dei fattori è sempre manipolabile in maniera da poter essere compatible con la stabilità del sistema, quando ogni determinazione viene assorbita sul terreno del senso, - a questo punto la stessa indicazione di una alterità fra validità ed efficacia, tra legalità e legittimità risulta inafferrabile. Come dice giustamente Gozzi: da questa situazione << consegue un processo senza struttura, un’evoluzione senza soluzioni di continuità in cui il momento dello scontro viene allontanato nell’infinita possibilità di differenziarlo attraverso la struttura del potere (monetizzazione, giuridicizzazione, politicizzazione, spoliticizzazione, ecc.). NelI’evoluzione delle forme sistemiche anche la decisione diventa solo una funzione del mutare contingente delle strutture >>. Che dire dunque in questa situazione? Dove mai sarà la differenza fra quei sensi fondamentali - verso l’ideale, verso il reale - che caratterizzano l’esperienza? Qui dominano tautologia e fluttuazione, qui emerge un parmenidismo essenziale. Qui l’orizzonte della pura contingenza diviene

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una prigione che trattiene dalla ricerca del significato.

Eccoci, dunque, al centro di un’operazione resa necessaria dal passaggio compiuto alla << sussunzione reale >>: la distruzione dei valori. Come nella teoria neocontrattualistica avevamo visto i soggetti sfumarsi dentro un meccanismo formale di interrelazioni, così ora vediamo l’orizzonte del valore dissolversi dentro la mobilità del sistema. Al di là dello schema teorico v’è quindi un duplice meccanismo: il primo è quello della distruzione dei valori nel senso del riconoscimento che questi possono in ogni caso organizzare un elemento di blocco, di opposizione e di crisi, del processo di legittimazione dello Stato democratico-capitalistico; il secondo è un meccanismo di sostituzione dell’orizzonte stesso sul quale le contingenze si scontrano. Voglio dire che il sistemismo segue il processo di << sussunzione >>, coglie di questo il carattere radicalmente catastrofico ed innovativo, identifica la dimensione astratta che caratterizza questo nuovo universo, caratterizza in maniera adeguata (contingenza versus comunicazione) questo stesso universo, - ma fa tutto questo per eliminare ogni possibilità di opposizione, per eliminare le stesse condizioni dell’opposizione, delle determinazioni storiche. Il sistemismo costituisce al reale un mondo che non è finto nei meccanismi di astrazione che lo producono - diviene finto, posticcio, fittizio, solo nella mistificazione del risultato - quando cioè questo mondo viene svuotato di ogni vita.

E’ esattamente quanto i critici rimproverano a Luhmann. Assumiamo e seguiamo, ad esempio, le critiche di Habermas. Esse si concentrano contro le affermazioni di Luhmann relative alla possibilità di autoadattamento dell’amministrazione rispetto alla complessità dei problemi del capitalismo avanzato; inoltre, Habermas insiste sul deficit di razionalità che è sempre presente, e a cui certamente non si può ovviare in termini filosofici, nel rapporto tra amministrazione e controllo. In entrambi i casi Luhmann proporrebbe una pianificazione globale non partecipativa, una determinazione dell’intervento amministrativo priva di controlli che non siano puramente tecnici. Ma la tecnica non può in ogni caso sostituirsi al consenso, soggiunge Habermas, - ed è impossibile sottrarre lo statuto logico di un progetto di pianificazione o semplicemente di un disegno o di un’organizzazione amministrativa alla scelta politica di un certo (o di un altro) concetto

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di razionalità. Questa critica di Habermas coglie non solo del punti singoli della sistematica di Luhmann - essa coglie l’ispirazione stessa di quella teoria. Vale a dire che l’analitica viene qui svelata nella sua estrema e ultima prepotenza che è quella di togliere ogni possibilità di ricorso alla determinazione ontologica, al fatto, ai movimenti della vita. E’ quella di sostituire il reale. Si badi bene: non è contro la materialità, l’effettualità di questo passaggio che qui si polemizza, è piuttosto contro il fatto che la verità di questo passaggio è opposta alle dinamiche completamente umane, fisiche materiali che, sia determinano il passaggio, sia continuano a caratterizzare il risultato. Da questo punto di vista la stessa critica di Habermas è, per quanto corretta, solo parziale: qui infatti non si tratta di attaccare le insufficienze tecniche del discorso di Luhmann (il quale, tuttavia, illustra fino in fondo il passaggio alla << sussunzione reale >>), qui si tratta di andare a fondo sulla qualificazione di questo universo nuovo dentro il quale viviamo e di riqualificare le categorie sociali e la loro critica a questo livello.

Ora, è la posizione, critica e/o costruttiva, che le scuole tedesche (Habermas, Apel, Tugendhat, ecc.) assumono, sufficiente a rispondere agli interrogativi proposti dal sistemismo? A me non sembra. Infatti la linea alternativa al sistemismo, (sulla base della medesima fenomenologia che il sistemismo assume) è identificata in una nuova definizione di trascendentalismo. Vale a dire che il rapporto tra sfera del senso e mondo dei significati sociali viene identificata in genere qui su un terreno medio di espressione del valore. Il mondo della comunicazione e quello delle contingenze empiriche sarebbero attraversati da un asse, a sostanza etica, che può ridurre in maniera non tecnica, in forme non meccaniche, la complessità reale. Le differenze fra codici linguistici, fra determinazioni pratiche che discendono dai temi linguistici, fra le varie sequenze temporali entro le quali le determinazioni della comunicazione vengono svolgendosi, - tutto questo deve essere risolto attraverso un’operazione pragmatico-trascendentale che, per i filosofi tedeschi che si scontrano con il sistemismo, consiste nel principio del consenso. Laddove il sistemismo tiene, e forma, anche sul livello del massimo di astrazione, il principio tradizionale dell’obbligazione, vi questi nostri amici tedeschi (che ormai possiamo cominciare a chiamare filosofi


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critici) introducono il tema del consenso come tessuto sul quale costruire assi di legittimità. Quanto poco questo processo ci entusiasma, sarà già apparso chiaro dal tipo di esposizione che ne abbiamo fatto. Certo, onesto è il tentativo di opporsi a quella fondamentale e rigorosa distruzione della prassi che caratterizza il sistemismo; certo, è molto importante questo riagganciare il tema dell’etico e riproporlo come chiave di comprensione logico-teorica; certo è essenziale porre il problema di un attraversamento ontologico (sia pure, appunto, etico) sull’orizzonte della << sussunzione reale >>. Ed è a tutti questi problemi infatti che dovremo rispondere. Ma non v’è speranza di soluzione laddove ci si tenga, come fanno filosofi citati, all’orizzonte del trascendentale, alla dimensione della mediazione.

Ma su di questo già detto moltissimo e a più riprese, inoltre saremo più innanzi ancora costretti a tornare su questo vizio occulto della filosofia (e della filosofia critica in particolare) che si chiama analitica. Qui per concludere cerchiamo piuttosto di dare, e questa volta senza rivolgersi agli amici tedeschi, una valutazione complessiva e definitiva del sistemismo. Che dire dunque? Che dire se non che esso rappresenta un’ambiguità enorme? Esso è ambiguo infatti perché comprende e offre insieme due dimensioni, una prima - corretta - di analisi, ed una seconda di mistificazione. Il sistemismo definisce correttamente la dislocazione, il salto epocale, che l’organizzazione del sistema dei valori costruisce nel nostro tempo a fronte delle necessità dello sviluppo capitalistico maturo. Il sistemismo descrive questo universo in maniera ricca e per alcuni versi compiuta. A lato di questo esso mistifica il processo: ce lo dà come disperato orizzonte dal quale non e possibile evadere, sul quale si e obbligati ad autoriferirsi a se stessi. Ma a quale se stessi? Perché infatti qui, non solo non si danno soggettività, qui non si danno più neppure valori - qui si possono dare solamente forme di controllo su un contesto di indifferenza totale. Il sistemismo è dunque una via per la mistificazione: il fatto che la mistificazione risulti efficace risulta dal fatto che la fenomenologia sulla quale il sistemismo lavora, è esatta.

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6. L’antagonismo nella teoria della legittimazione.

Tentando di riassumere e di definire lo stato della dottrina del diritto nella fase attuale dobbiamo notare con quanta forza il passaggio ad un’altissima integrazione sociale abbia influito sulla forma della scienza. In ciò consiste la faccia positiva delle discussioni che, sulla natura della scienza e sul suo sviluppo, oggi sono aperte. Ma d’altra parte questa pressione della farina dell’interazione sociale sulla farina della scienza si è prodotta in termini meccanici. Il pensiero borghese si presenta, quindi, nella sua versione forte, come sistemismo, nella sua versione debole, come funzionalismo e contrapposizione. Ma non sono queste definizioni, dentro il rapporto lineare che la lega all’integrazione sociale, piuttosto fossili risultati che prodotti viventi del rapporto fra scienza e società?

E’ caratteristico il modo nel quale le tendenze a trasferire il rapporto sociologico (e la sua sempre più stringente moderna qualificazione) versa il terreno della scienza, come l’apporto di Max Weber alla sociologia della conoscenza e della scienza, siano stati qui corrotti. In Max Weber la scivolare del significato, del valore, dal piano della realtà a quella della rappresentazione, costituiva un rapporto contraddittorio: non dialettico, ma contraddittorio. La contraddizione non si chiudeva in nessun caso ed il trasferimento delle tematiche castituiva [costituiva?], per così dire, un piano di intersezione, mobile, orientato in infiniti sensi, - sicché ogni passaggio versa l’astratto determinava conflitto, fissava ai valori direzioni politeiste, offriva alla scelta una dimensione tanto trasversale quanto multilaterale. Ma ora, che cosa avviene? Guardiamo a questi weberiani accademici: in loro ogni drammaticità inerente allo scontra dei valori è caduta - la loro unica preoccupazione è che i criteri di legittimazione possano scontrarsi - o non formarsi compiutamente ed egemonicamente sul lato del potere esistente. E per loro la democrazia è sempre un eccesso che va corretto (come un indimenticabile saggio della Trilaterale ha raccontato per il nostro secolo). Così in Raymond Aron la burocrazia diviene, molto poco weberianamente, non un prodotta di un processo di legittimazione fondato comunque su scelte ed antagonismi di valore, ma la base di ogni moderna democratica fondazione della legittimità. Così per Michel

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Crozier i processi di burocratizzazione diventano talmente centrali nella considerazione che, non prima o attorno o comunque fuori di essi, ma solo dentro di essi, processi di valore e di legittimazione possono definirsi. In questo modo il sistemismo tedesco ed anglosassone viene tradotto in francese, con il vantaggio di essere rivestito di politica, di esperienza amministrativa e di buon senso burocratico. La figura astratta, provocatoria, radicale del sistemismo tedesco e anglosassone è tolta. Il sistemismo viene ovattato - perde in realtà anche le sue caratteristiche fenomenologiche e descrittive, positive per quanto riguarda la nostra conoscenza dei fenomeni e delle trasformazioni della contemporaneità; ed in tal modo si riduce a pura e semplice fossile escrescenza di un processo concluso. L’antagonismo che è alla base del passaggio verso la << sussunzione reale >> è così cancellato in maniera, non più radicale, provocatoria, offensiva per la ragione - forse proprio per questa prepotenza, utile - bensì ne è imposta una negazione fluida e surretizia. Nel nostro tempo vediamo questa fossile mistificazione dei processi di legittimazione nella << sussunzione reale >> divenire assolutamente egemonica E quando si piange sulla spoliticizzazione o sull’indifferenza dei singoli e delle masse, è a ciò che occorre far risalire il pensiero: a questa fissazione, ormai indiscutibile, del tema della legittimazione.

Di contro, tessuti vari e campi diversi di esperienza. Vi è una nuova << Entzauberung >> che si sta mettendo in atto. Questa meraviglia, questo stupore filosofico che deve portare allo smagamento non può oggi esercitarsi che su questa dimensione formidabile del nostro esistere in quanto esseri sociali. La << sussunzione reale >> e le forme di legittimazione, fossili e spente, che di essa organizzano la struttura politica e quella giuridica si scontrano a tal punto con il sentimento comune, ed a tal punto rivelano la contingenza di ogni soggetto implicato in questo meccanismo, che il dubbio e la volontà di rispondere non possono che farsi radicali. Abbiamo già visto nella prima parte di questa nostra ricerca come appunto sia a fronte della << sussunzione reale >> e di quel << postmoderno >> che in parte letterariamente li incarna, che la coscienza della contingenza e l’estremo radicalismo delle sue scelte vengono emergendo. Qui non ci interessa tornare a quella profondità: qui ci interessa piuttosto restare in superficie,

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- eppure considerare come da questa superficie si diramino delle possibilità di domanda metafisica, e già, prima, delle domande che investono, attraverso il tema della legittimazione, la ragione dell’esistenza sociale. Quando l’uomo è completamente sussunto nella forma della società, la dignità della filosofia si fonda intera sulla sua adesione al sociale. Venendo al concreto: l’esperienza, quella stessa esperienza che si scontra con la rigidità delle mistificazioni del << postmoderno >>, determina un’insofferenza, una tensione di rottura, riapre in ogni caso del fronti di antagonismo che vengono vissuti drammaticamente dal soggetto. Certo, i processi di << sussunzione >> non lasciano spazi di agibilità per il soggetto, al di là di quella superficie totale sulla quale egli è schiacciato; certo, la domanda sull’essere è domanda sull’essere sociale quale questo viene rappresentandosi in questa nostra esistenza sussunta. Ma è appunto questo apparire della soggettività sulla, e come, superficie del mondo che ripropone un pluralismo a fortissima densità ontologica - ma pluralismo qui, non può che significare, sul largo orizzonte della << sussunzione >>, il costituirsi di chiaroscuro, il definirsi sempre meno evanescente dei nuclei di soggettività, insomma l’eventualità, meglio la possibilità, di antagonismo. Io non so come questa esperienza possa essere compiutamente descritta: qui è luogo, in questo nostro triste tempo, alla letteratura ed alla poesia più che alla filosofia. Ma è certo che quando, ad esempio, la genesi di questi antagonismi sul terreno sociale viene impattata da meccanismi di legittimazione rigidi e repressivi, è certo che allora lo scontro fra libertà e necessità, tra vita e morte, tra dinamica e forza fossile di questo mondo dominato, diviene un elemento di definizione ontologica della società. La soggettività come superficie del mondo è un paradosso - ma questo terreno paradossale è attraversato da tensioni inesauribili che definiscono ogni orizzonte di vita come terreno di scontro, di genesi e/o di equilibrio di valori.

Nella teoria della legittimazione ci troviamo quindi di fronte, da quello che siamo venuti dicendo, all’opposizione di due grandi prospettive teoriche. Da un lato vi è lo schema della legittimazione così come è proposto dalle forze che hanno dominato il processo della << sussunzione >>: qui, fra neocontrattualismo, funzionalismo e sistemismo, la macchina del potere tenta di costruire l’intera

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panoplia dei beni e dei soggetti giuridici. Che il diritto sia una macchina per la produzione di qualificazioni per l’azione umana, sociale, è noto: meno noto è il fatto che qui non si parla di valori da organizzare o di soggetti da qualificare, si parla bensì di valori e/o soggetti da costruire o da distruggere. Nella socialità della << sussunzione >> la produzione di soggettività da parte dello Stato si vuole totale. Totale significa, in questa accezione, esclusivo di ogni altra autonoma insistenza di valori o soggetti e di ogni altro meccanismo di produzione di valori e di soggetti. L’egemonia della produzione di valori e soggetti da parte dello Stato, o del potere, è organizzata nel processo di legittimazione - e questo processo è lineare, ha la violenza di un normale fenomeno naturale, è guidato da leggi di semplificazione tanto efficaci quanto lo sono le leggi naturali. Ma si sa bene che l’astrazione delle leggi naturali corrisponde solo eccezionalmente alla concretezza del reale. Ed é per questo che le teorie della legittimazione, funzionali, neocontrattuali, sistematiche, sono costrette a muoversi in un mondo di evanescenti figure o di irraggiungibili fantasmi. In questa teoria della legittimazione, l’astratto è astratto. Non così nella realtà della << sussunzione reale >>: dove l’astrazione è divenuta vita. Se non si capisce questo si resta prigionieri della forma mistificata dell’astrazione, sulla quale si basa il modello del dominio. L’uomo è divenuto diverso, si è arricchito di un’enormità di forze intellettuali e morali. Il suo cervello è divenuto mille volte più astratto, le sue mani non servono più ma le macchine sono sempre le sue mani. E’ questo rapporto, che deve essere rapporto di dominio dell’uomo su questa natura trasformata e meccanizzata, che costituisce la vita nella << sussunzione reale >>. La si potrà amare o no, ma è la vita. Ma è vita. Ed è talmente diversa, e mette in movimento un insieme di forze talmente opposte a quello che è il dominio e la nuova astrazione dell’analitica, - bene, è questo il terreno sul quale l’analisi va riportata. Se i meccanismi di legittimazione e i processi complessi che conosciamo attraverso le teorie del diritto, vogliono fissare nell’astrazione dei meccanismi di produzione di soggettività, noi d’altra parte siamo dentro un tessuto vitale che, per parte sua, continua a produrre soggettività.

Vale la pena di porsi il problema di una rifondazione della teoria del diritto? Per chi abbia fatto l’esperienza di quanto le teorie

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del diritto e dello Stato siano sempre state il prodotto di una volontà di dominio e come, addirittura, essendo la centralità e l’importanza di queste teorie eccezionale, le stesse figure disciplinari della logica, dell’etica, del sapere in generale, siano subordinate alle ingerenze di dominio delle teorie politico-giuridiche - per chi dunque abbia fatto questa esperienza la risposta è facilmente negativa. Noi continuiamo a costruirci la gabbia dentro a quale ci imprigioniamo. Ma questo forse giusto, certo mistico rifiuto, se vale a toglierci la volontà di rifondare teorie del diritto, certo non vale ad imporci [imporsi?]di capire che cosa avvenga sul terreno sociale della produzione e della regolazione di valori e di soggetti. Ora, è fuori dubbio che qui l’antagonismo non solo non può essere negato ma costituisce addirittura l’esclusiva chiave di ogni considerazione teorica. E non solo: qui l’antagonismo e le sue ragioni e il suo modo di essere provano la lore esclusività sul terreno della << sussunzione >>. La concezione dell’analitica, secondo la quale il modello teorico antagonistico (un antagonismo fondato su espressioni ontologiche) scoperto nell’estetica trascendentale, deve essere riplasmato per potersi collocare nell’analitica e per poter quindi essere trasferito, già in forma modificata, verso la dialettica trascendentale - bene, questa pretesa è insostenibile qualora ci si tenga a quella prova di irriducibilità che continuamente la moderna << Entzauberung >> produce.

L’antagonismo è il processo di sviluppo della << sussunzione >>, è la << sussunzione >> in atto. L’antagonismo è quindi l’esperienza dentro la quale viviamo la crisi ed il suo superamento. L’antagonismo è d’altra parte la bestia nera, l’elemento assolutamente inaccettabile dalla parte dell’avversario. Ogni meccanismo di legittimazione dovrebbe concludere all’eliminazione dell’antagonismo. Ora, è proprio tenendo presente queste assunzioni, largamente dimostrate nelle pagine precedenti, che lo statuto logico dell’antagonismo emerge in maniera ineliminabile. Oggi il nostro problema è quello di ritrovarlo, di riqualificarlo positivamente nell’ambito della << sussunzione reale >>. Il problema non sarà quindi certo quello di rifondare teorie del diritto e dello Stato, - è solo quello di identificare l’antagonismo come chiave del processo di integrazione sociale, di amministrativizzazione della << sussunzione >>, insomma come nuova natura del processo scientifico. Probabilmente, proprio perché l’antagonismo

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è questa nuova natura del rapporto scientifico, è probabilmente per questo che la scienza del diritto avrà finalmente mostrato il suo limite costituzionale, ovvero quel limite al di là del quale non vi è riproduzione. Di questa crisi non potremmo che essere contenti. Ma ciò che interessa, è cogliere la nuova natura della rappresentazione scientifica dell’antagonismo. L’analitica sola il diritto, e le teorie dello Stato, in un ambito disciplinare specifico per noi tutto questo non ha senso. La << sussunzione >> ha prodotto l’unificazione dei terreni disciplinari, ha reso concreta l’universalità del sapere. Ora, su questo terreno, la scienza del diritto e dello Stato possono solo essere subordinate a quella scienza sociale trasfigurata di cui la << sussunzione >> permette ed esige la vita. L’antagonismo è quindi rivelazione di una crisi ed, insieme, costruzione di un nuovo terreno. Nuovo terreno? Solo impropriamente possiamo dirlo, perché in realtà non si tratta di accedere ad un nuovo campo di indagine, qualificato in termini originari: si tratta bensì di ritornare a quella dimensione fenomenologica, a quella estetica trascendentale da cui siamo partiti. La conoscenza della << sussunzione reale >> si determina nell’immediatezza dell’esperienza. Questa pratica viene prima di qualsiasi nuova idea della scienza e della natura. Essa deve comunque distruggere ogni tentativo di mistificare attraverso la mediazione teorica il tessuto vivo dell’esperienza. Questo tessuto è caratterizzato in maniera esclusiva dall’immediatezza dell’antagonismo.

7. Per una nuova determinazione del problema.

Da quanto siamo venuti dicendo in questa parte del nostro lavoro risulta chiaro che un’epistemologia della legittimità non potrà ormai porsi se non su un terreno sul quale le vecchie antinomie giuridiche risultano ineffettuali. Ci troviamo davanti una possibilità molto interessante: è quella di muoversi dall’interno di un orizzonte, meglio, di una macchina, che caratterizza l’intero contesto della nostra esperienza. Sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, sia dal punto di vista individuale che da quello collettivo. La << sussunzione reale >> ed il suo mondo si manifestano come seconda natura. Ne hanno lo stesso spessore. Hanno

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della prima natura il colore e la forza, ma di quella hanno maggiore intelligenza e più consistente capacità di produzione. Ci dobbiamo dunque dichiarare, dentro questa natura rinnovata, dentro questa storia consolidata, a partire dalla capacità di far funzionare almeno parzialmente questa macchina nella quale siamo inseriti, - ci troviamo dunque a potersi [poterci ?] dire giusnaturalisti. Non è un paradosso: semplicemente il sentimento più forte che la protesi è divenuta più umana dell’umano e che natura e storia sono indistinguibili: sicché la salvazione dell’una o dell’altra e la riproduzione di entrambe si costituiscono in un solo atto.

Ma il nostro problema è evidentemente, su questo limite di analisi critica dell’analitica trascendentale, soprattutto quello di fissare il quadro epistemologico della legittimità giuridica. Ora, piuttosto che totalmente, noi possiamo qui solo definire alcune condizioni che rendono un approccio costruttivo, a questo problema, possibile. I tre punti sui quali ci fermeremo qui di seguito sono: la critica del funzionalismo, la critica dell’intuizionismo, la critica dell’autoreferenzialità del processo.

Per quanto riguarda il funzionalismo - ma potremmo [potremo ?] anche dire di tutta quella serie di ipotesi che stanno fra formalismo e sistemismo - possiamo dunque concludere l’analisi già così largamente sviluppata insistendo sul fatto che questa serie di teorie finisce per non spiegare nulla, nella misura in cui, anziché teorie, esse rappresentano dei materiali della costruzione del mondo sussunto. Certo, dentro questa coerenza del quadro, il funzionalismo produce, per quanto riguarda l’ambiente della nostra esistenza e riproduzione, una serie di spunti di valore. Vale a dire che la produzione collettiva di momenti innovativi ed in generale il passaggio ad una nuova epoca (che è quella della << sussunzione reale >> trova nel funzionalismo una specie di codice di regolazione, meglio una stabilizzazione, un’immediatezza, una coerenza che di quei valori innovati fanno un paesaggio. Una seconda natura, appunto. Detto questo tuttavia non si è aggiunto molto all’analisi, poiché infatti risulta sempre più evidente che su questa base possono a pari titolo trovarsi cose tanto diverse quanto un movimento di liberazione o operazioni di mistificazione. Non è il funzionalismo che può distinguere le une dalle altre - anzi, esso ci consegna entrambe le possibilità come equivalent,, o perché - su un lato - di tutte il funzionalismo ci propone

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un minimo comune denominatore formale, o perché - su un altro estremo - il sistemismo ci mostra la connessione e la possibilità di ribaltamento dell’un termine e dell’altro. Il funzionamento gioca sempre fra la statica formale e la dinamica sistemica. Il funzionalismo ci mostra un mondo nuovo, ma esso è, in questo mondo nuovo, dominato da un passivo sbalordimento.

D’altro lato, questa serie di valori, che si sono consolidati sul nostro orizzonte, noi possiamo intuirli. Il giusnaturalismo è sempre, per qualche verso, un intuizionismo. Infatti esso prevede l’immediatezza dei valore, il loro solido consistere e il loro materiale offrirsi. Il valore è, nell’intuizionismo, qualcosa di percepibile immediatamente - e anche quando questo nuovo giusnaturalismo si presenti nella forma della << sussunzione reale >> e/o del postmoderno, bene, allora i valori, conterranno una tensione a distendersi entro la circolazione generale - dentro la comunicazione che costituisce l’orizzonte: non per questo essi saranno meno mediabili e la loro scambiabilità, non per questo, rinnegherà la consistenza assiologica. Ciò detto, tuttavia, non ci resta che trarre, anche in questo caso, delle conseguenze critiche. In ogni intuizionismo infatti, ed anche in questo che pure è così sofisticato, vi è sempre un momento fondamentalista - vale a dire un momento nel quale il valore si sottrae alla circolazione - ma questo è contro l’ipotesi del passaggio alla << sussunzione >> sia formale che reale. L’intuizionismo è la filosofia delle anime belle - purtroppo, a questo livello di sviluppo, c’è poco spazio per queste filosofie. Logicamente l’intuizione propone, sia pure in forma introduttiva, una teoria della legittimazione come incontro di volontà, di soggetti e di valori, opposti ma convergenti. Da questo punto di vista ogni intuizionismo si sviluppa verso il contrattualismo - e viceversa. Ma come abbiamo visto criticando il contrattualismo, possiamo ora, sul piano dell’epistemologia, ripetere quelle critiche - cioè insistere sul fatto che in tal modo si finisce solo per alludere ad una specie di ventre molle della scienza, ad una confusa materialità che tutto dovrebbe mediare, ad una in fondo equivoca medietà scientifica. Che tutto questo sia un aspetto, un carattere, fissato ormai, del mondo della << sussunzione >>, è evidente. Ma proprio per questo ogni intuizionismo è insufficiente a determinare un atteggiamento critico complessivo.

L’autoreferenzialità del modello è un terzo momento da

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sottoporre a critica. Di nuovo ci troviamo di fronte ad una caratteristica che è fondamentale nel sistemismo, ma che lo è anche nell’intuizionismo. Si potrebbe dire che, mentre nel sistemismo l’autoreferenzialità è costruita dall’alto, in maniera estensiva, e quindi raccoglie orizzontalmente valori e soggetti in un circuito appunto di referenze esaustive - nell’intuizionismo l’autoreferenzialità è costruita dal basso, a partire dal fondamento intuito, e raccoglie così, in un disegno continuo, su assi verticali, le referenze di valore. Ora, in entrambi casi noi ci troviamo di fronte ad uno schema che corrisponde al prodotto del movimento verso la << sussunzione >> - ma nell’autoreferenzialità questo movimento è perduto, l’immagine autoreferenziale del prodotto non contiene né il ricordo né la nostalgia del movimento. L’autoreferenzialità è per qualche verso sempre ipostatica. Essa è d’altra parte contraddittoria con lo statuto ontologico degli elementi che ne costituiscono la definitiva figura, perché questi elementi di contingenza comportano, nel loro dinamismo, alternative radicali - che nella conclusione del processo sono invece bloccate e fissate. In più: vi è, in questo concetto di autoreferenzialità, qualche cosa che colpisce negativamente perché il processo sembra obbligato a svilupparsi in maniera lineare, a possedere un meccanismo costrittivo - insomma, l’autoreferenzialità esprime un risultato che era già tutto implicito nella sua origine, non ha quindi movimento. Come già si è detto, l’autoreferenzialità è parmenidea. Di contro la critica della scienza e la comprensione delle sue interne dinamiche - la critica della scienza dunque ci mostra quanto sia reale un processo opposto a quello fissato nel modello di autoreferenzialità. Lo sviluppo scientifico è uno sviluppo per salti, attraverso modificazioni radicati di paradigmi, ed innovazioni qualitative. La regola che domina lo sviluppo scientifico è la medesima che regola i processi di fondo, naturali o storici - nella loro realtà: e quindi le regole della trasformazione innovativa dei movimenti e della loro sempre nuova dinamica di aperture multilaterali. Non voglio qui giocare al piccolo Engels, né voglio troppo stringere una dialettica della natura e la dialettica della scienza - ché, ciò facendo, si introdurrebbe una connessione lineare del tutto ingiustificabile fra questi due orizzonti. Ciò su cui voglio insistere è il fatto che tutti i possibili orizzonti si collegano dentro una grande quantità di possibilità multilaterali di trasformazione.

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Le contingenze sono contingenze vere e proprie — non v’è nessun nesso, neppure logico, che possa ad esse essere precostituito. Qui verifichiamo fino in fondo la potenza di quell’ipotesi sull’analitico a posteriori sulla quale, nella prima parte di questo lavoro, abbiamo tanto insistito - e non è senza grande emozione che il pensiero si volge verso quelle teorie logiche delle << notiones communes >> che tanta importanza ha avuto nel momento di nascita della scienza moderna.

Assunti questi elementi, ed escluso dunque che il problema epistemologico della legittimità possa essere posto a partire dal funzionalismo, dall’intuizionismo e dall’autoreferenzialità, - ammesso, tuttavia, che in tutte e tre queste impostazioni è rivelato qualche aspetto essenziale della trasformazione degli universi culturali che abbiamo vissuto - assunto dunque tutto ciò, e con ciò la critica di ogni analitica trascendentale che voglia porsi come scienza - eccoci dunque a riproporre il tema della legittimazione. E’ chiaro che qui non possiamo che riprendere le conclusioni della prima parte del nostro lavoro. Abbiamo fatto un détour, piuttosto lungo e comunque tanto approfondito quanto ne nasceva la necessità in relazione alla natura stessa delle cose analizzate. Ma è fuori dubbio che qui siamo arrivati alla stessa conclusione a cui era arrivato il nostro progetto di una possibile estetica trascendentale. Voglio dire che questo mondo dell’immediatezza, di una immediatezza talmente astratta e sviluppata, non può trovare senso logico e soluzione teorica se non sul terreno della pratica. Di nuovo siamo pervenuti a quel limite di crisi che è lo sviluppo dell’esistente nella << sussunzione reale >>, di nuovo siamo arrivati a definire quel mondo nel quale astrattamente siamo collocati e quell’indifferenza nella quale soffochiamo. La logica, l’analitica sono chiave di volta di questa realtà: una chiave di volta in senso proprio, perché sono infilate nell’edificio e da esso sono indisgiungibili. Una via d’uscita da questa situazione non può darsi che sviluppando una pratica emancipativa, alternativa, una proposta di liberazione. Qui, di nuovo, l’ontologia si libera della logica e chiede uno sbocco etico. Non uno sbocco quanto una rifondazione. Il problema della legittimazione non è distinguibile da questa operazione di dislocazione ontologica. Fin qui abbiamo seguito il processo nella sua figura mistificata: ora dobbiamo vedere finalmente che cosa

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possa essere, di là da questa mistificazione analitica, un nesso diretto e costruttivo fra trascendentale e schematismo (o dialettica ?) della ragione. Ma è una ragione piantata nella pratica, questa che seguiremo – una ragione etica.

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