¦¦ Index ¦¦ Reference ¦¦ Translations ¦¦ Negri ¦¦ Recent Additions ¦¦

Capitolo Terzo
<< Compact >>, per una dialettica
trascendentale del potere.

1. Critica del concetto di potere.

Siamo dunque in grado di affrontare il problema dialettico, ovvero di procedere sul terreno dell’illusione vera. In questa parte, dopo che nella prima abbiamo cercato di identificare quella rete etica e quel punto di vista pratico che soli possono permettere lo sviluppo della teoria e, ad essa, di non perdere il rapporto con l’immediatezza reale, - dopo che nella seconda parte abbiamo visto come la soggettività, i suoi nomi, sensi, orizzonti, possono essere prodotti dal potere, direttamente, ma in forma non meno antagonista - in questa parte, dunque cercheremo di articolare l’immediatezza del fondamento sia riguardo alla fenomenologia dei soggetti che con riferimento alle finalità del movimento.

Procedere su questo terreno, significa produrre un concetto di potere. Questo non ci aiuta certo a chiarire le cose - anche se ritenessimo infatti il concetto di potere subordinato ad una gerarchia di valori, che in qualche modo lo predeterminano o lo collocano in assetti complessi, saremo preda di vecchie ambiguità concettuali. Recentemente, del concetto di potere si è molto discusso. Proprio queste immediate connessioni assiologiche sono state al centro della critica. Per approfondire la critica, sarà quindi necessario non solo rompere quelle connessioni ma affrontarle dal punto di vista della genealogia storica e teorica. Ora, su questo terreno, si avverte che le ambiguità del concetto di potere erano il frutto di una non conclusa sua secolarizzazione. Così, fissare la centralità del concetto di potere, significa inseguirne le

- 113 -


determinazioni storiche, vedere come esse siano venute svolgendosi, e contemporaneamente sviluppare la critica.Ora, la mia ipotesi è che il concetto di potere sia mistificato ogni qualvolta esso è sganciato dalla concezione del soggetto. Ogni qualvolta ciò avviene, ed in particolare ogni qualvolta esso ci viene presentato o come immediatezza oggettiva o come pura rete di rapporti strutturali, bene, questi tipi ideali estremi di concettualizzazione del potere rappresentano pure e semplici mistificazioni. A questo proposito non troviamo nulla di diverso da quanto abbiamo già visto analizzando il concetto di legittimità - quando cioè abbiamo visto scontrarsi una concezione realistica ed una concezione formalistica/funzionalistica. Mutatis mutandis, ci troviamo nella medesima situazione ed abbiamo a che fare con le medesime mistificazioni. Per uscirne è necessario allora procedere nel senso già precedentemente identificato - cercare cioè un momento di sintesi per eliminare l’isolamento degli elementi conoscitivi, l’astratto che è e resta astratto - un momento analitico a posteriori, una volontà conoscitiva, soggettivamente determinata, dotata di potenza creativa. Questo fondamento a posteriori del potere, nella sua immediatezza, è dunque comunque soggettivamente definito, - anche se certamente non si conclude nella soggettività. La storia del concetto di potere ci mostra come questo venga man mano soggettivandosi, ma nello stesso tempo proponendo una concezione complessa del soggetto: se vi è un processo di secolarizzazione, esso non va certamente inteso come compimento dell’antropomorfismo nella concezione del potere, ma come sempre più complessa articolazione soggettiva del suo concetto.

Prendiamo un solo esempio: il rapporto fra concetto di potere e concetto di pace. Che la pace possa essere uno dei contenuti del potere è relazione nota. Che, con maggiore intensità, la pace debba rappresentare il concetto di potere, come tale, in maniera esclusiva, è una concezione che si è affermata quando le origini teologiche del concetto di potere sono state gettate via e la figura pessimistica del giusnaturalismo è divenuta egemone. Ma il rapporto tra pace e potere ha presto superato queste determinazioni, per così dire, trascendentali - perché esse, implicitamente ma non meno necessariamente, facevano di pace e potere forme tautologiche, indifferenti, morte. Di conseguenza presto il rapporto

- 114 -


si è fatto soggettivo: e se qui si sono ripetute le alternative che nei periodi precedenti la razionalizzazione del problema era possibile cogliere, l’interrogativo cioè attorno alla funzione etica della pace e della soluzione del conflitto - pure, qui, lo sviluppo e la determinazione dei concetti sono stati caricati di una dimensione operativa, positiva, di una determinazione materiale sopra una genealogia soggettiva e creativa. Il potere diviene così sempre di più qualche cosa che cresce con un soggetto sociale, che quindi ha una sua specifica articolazione interna, un sistema di valori che è capace di esprimere - insomma il potere è la stessa potenza di esistere di un soggetto collettivo. Non c’è possibilità di definire il concetto di potere se non in termini sociali, dove cioè la relazione e i valori non sono esterni ma interni al soggetto, non trascendentali ma prodotti direttamente dal soggetto. La differenza tra potere e forza, tra potere e violenza consiste nella razionalizzazione che della forza e della violenza vien [sic] fatta dal soggetto collettivo - forza, violenza, in questo caso, possono anche chiamarci [chiamarsi ?] pace - è infatti del tutto chiaro che la pace deve essere conquistata, difesa e organizzata, ecc. ecc.

Entriamo dunque, in questo modo, su quel terreno sul quale la capacità di esistere costituisce un tessuto complesso. In questa prospettiva il potere diviene un luogo originario che va determinato. Potere è quindi, genealogicamente, in primo luogo, lavoro. Il lavoro infatti è, stando alla definizione dei classici, quella attività trasformativa che viene esercitata al fine 1. del dominio della natura e 2. della riproduzione della specie. Ma il potere tenta continuamente di introdurre, al di là di queste determinazioni, una nuova struttura: quella 3. del dominio dell’uomo sull’uomo. E di specificarla. Esso ha ragione di muoversi in questo modo, perché così, sia pure in form a mistificata, soggettivizza il concetto di potere. E’ esattamente lo sviluppo di questa soggettivizzazione mistificata che distrugge infatti quella terza determinazione: meglio, toglie ogni pretesa di razionalità alla definizione del dominio dell’uomo sull’uomo e riconduce le determinazioni del potere ad un luogo critico, aperto all’attività e alle qualificazioni sociali. Il lavoro dunque, e le sue modalità trasformative, l’insieme della forza lavoro, costituiscono la base del concetto di potere. E se quella legge infame che vuole che le ragioni del dominio corrano assieme, anzi si identifichino

- 115 -


con quelle dell’organizzazione del lavoro, va distrutta, - si può qui subito aggiungere che ciò può darsi solo se essa sia colta ed estremizzata e, per così dire, spinta verso a sua estinzione materiale, dopo che la sua insensatezza logica sia stata provata.

Tutto questo in maniera generalissima. Qui di seguito cercheremo ora di vedere come il concetto di potere si articoli e si autodefinisca, interpretando quella soggettività specifica che è il prodotto dei meccanismi di sfruttamento del lavoro nella fase della << sussunzione reale >>. Cercheremo cioè di vedere come, in questa dimensione, il soggetto lavorativo si autorganizzi, quale rapporto esso stabilisca con altri soggetti sulla scena sociale, come i suoi bisogni e desideri vengano trasformandosi e infine come la sua egemonia possa organizzarsi. E’ su questa specificità che si raccoglieranno fili dell’analisi complessiva.

 

Su questa specificità. Significa che la prossimità di soggetti diversi costituisce un elemento centrale della percezione fenomenologica del sociale e del politico. Può darsi che questi soggetti collettivi siano confusi in formule generali di accordo, di consenso, di processo costituzionale, - può appunto darsi: ma per quanto? Se c’è una cosa che il processo di secolarizzazione e di soggettivazione complessa del potere ha mostrato, attraverso un irresistibile seguirsi di crisi e convulsioni, è il fatto che sulla scena costituzionale si presenta una irriducibile pluralità di soggetti collettivi. Il rapporto fra questi non ha nessuna caratteristica formale: esso si esprime, e si risolve (se si risolve), solo su una lunga prospettiva di rapporti di forza. Il potere è certo sempre funzione ed organizzazione costituzionali, è certo schema trascendentale di una serie di pulsioni e tendenze che vogliono trovare coordinazione logica fra di loro - ma il fatto di essere tutto questo non toglie, anzi sollecita il fatto che il processo si sviluppi dentro ed attraverso le singole separate soggettività. Il potere è sempre funzione costituzionale, ma e costitutivo non di un rapporto generale ma di un rapporto particolare, di un’articolazione specifica, all’interno delle singole grandi soggettività. Potere è costituzione, costituzione è specificità. Al di là di queste generalità si tratterà allora di determinare lo spazio, il tempo, la qualità di ogni singola emergenza soggettiva e di ogni specifica risultante costituzionale.

Quando affrontiamo questi problemi, noi sviluppiamo allora

- 116 -

più importanti spunti di un’estetica trascendentale della prassi. Vale a dire che noi sviluppiamo il punto di vista del fare come punto di vista fondamentale. La centralità di questa prospettiva discende, con caratteristiche di necessità, dalla centralità ontologica dell’etica, meglio, dal fatto che noi ci muoviamo dall’interno di un’ontologia etica, vivendola, come si può vivere un’esperienza egemone nella sensibilità filosofica contemporanea. E’ una genealogia del potere o dei poteri, quella che è qui proposta. Il rapporto tra soggettività, punto di vista del fare, ontologia ed etica, è centrale perché questo solo sembra essere il tessuto sul quale poter determinare un orientamento metafisico. Foucault sosteneva che solo da un punto di vista storico queste filiere del fare potevano essere seguite - ed è vero. Ma non è men vero che, da un punto di vista metodologico, queste potenze possono essere spinte verso un punto di vista teorico e quindi essere considerate nell’indipendenza delle teorie, - senza, con ciò, che esse perdano la loro etica pregnanza.

Seguiamo ora questo cammino con riferimento al problema del potere. Ci siamo fin qui aperti alla critica del concetto e delle sue possibili mistificazioni, abbiamo poi definito un possibile punto di vista metodologico. Infine, nei prossimi capitoli, vedremo le interne articolazioni di questo processo. Ma ora, tra il prima e il dopo, ci resta da chiarire un concetto: ed è che il potere, se son veri i presupposti, si presenta sempre come molteplicità, come contro-poteri, meglio, come rete di contro-poteri. Parlando di etica avevamo sottolineato il ruolo fondamentale del principio di antagonismo: in forma generalissima basterebbe questo a dar ragione del fatto che il potere si dia come contro potere. Ma ogni condizione siffatta determina problema. Ne deriva che la singolarità delle determinazioni soggettive che costituisce il rapporto antagonistico dei poteri va analizzata specificamente - perché questa singolarità, questa forte individuazione attraverso forte antagonismo, non negano ma nutrono e costituiscono la complessità specifica del quadro. Troppo spesso, nella esposizione volgare dei concetti filosofici, ci siamo trovati di fronte a sequenze, cosiddette dialettiche, in cui, all’incrementare del grado di antagonismo, corrispondeva l’estinguersi della sua misura nella complessità. Questo è appunto un meccanismo espositivo, tanto comune e banale quanto perverso. Di

- 117 -


contro, l’aver collocato il principio ontologico nel bel mezzo della vita etica, l’aver con ciò fissato una connessione indissolubile fra ontologia ed etica, ci permette oggi di dimostrare che sull’orizzonte dell’antagonismo è l’intera complessità del reale che si prova. Siamo nella << sussunzione reale >>. Siamo in una situazione nella quale ogni determinazione, tanto più se teorica, può essere completamente riassunta nell’insensatezza circolare di una fenomenologia del dominio. Solo il fare, il punto di vista pratico - solo quella determinazione che si colloca sull’orlo dell’essere e del non essere, a cavallo fra la catastrofe e la speranza - ecco dunque la collocazione aggressiva dell’immaginazione trascendentale, oggi. Essa non annulla ma evidenzia drammaticamente la complessità del processo storico. Un’enorme contingenza ha invaso l’esistente. A partire da questa contingenza che tocca tanto a natura del fare quanto le sue dimensioni e i suoi orizzonti, noi comprendiamo la complessità. Le collocazioni antagoniste, e cioè un loro certo porsi nello spazio, nel tempo, nel contesto dei valori, dunque, non tolgono complessit&agrave; né all’essere né all’antagonismo. Né l’antagonismo cancella la complessità, né viceversa a complessità cancella l’antagonismo. Se uno dei due termini è eliminato, questa determinazione non dipende dal principio complementare ma da altre ragioni. Condizione comunque difficilissima da verificare.

La critica del concetto di potere, riassumendo le determinazioni che siamo venuti fin qui fissando, esprime, dunque, una situazione metafisica in cui soggettività, antagonismo, pluralità, complessità, convivono, si susseguono nel caratterizzare la potenza sociale. E’ una specie di universo leibniziano quello che abbiamo davanti, è l’universo nel quale la libertà etica vive della contingenza, quindi dell’indeterminatezza di traiettoria della soggettività. Leibniziana è anche l’idea che, quanto più si scontra con l’esterno, tanto più la soggettività scava in se stessa ed organizza la propria costituzione. Noi potremo dunque parlare di costituzione, se ne parleremo, a partire da un contesto di contro-poteri, e cioè da un contesto di determinazioni soggettive che abbiano scoperto in se stesse il massimo di articolazioni di potenza.

Per fare un esempio. E’ fuori dubbio che, ad un certo punto. nella storia del pensiero politico occidentale, è intervenuta un’efficace


- 118 -


operazione di mistificazione, una vera e propria perversa modificazione di paradigma, in riferimento al concetto di potere. Vale a dire che il tessuto sociale, nel primo contrattualismo dell’evo moderno, era definito su un orizzonte, per così dire, piatto, orizzontale, appunto << contractum unionis >>. Ad un certo punto, tuttavia, un enorme potenziale antagonistico, un enorme potenziale soggettivo che pretende all’egemonia, vengono rovesciati su questo rapporto, al fine di determinare una sua verticalizzazione: << contractum subjectionis >>. Il pluralismo, così, non vien [sic] più dato come tessuto di eguaglianza, come terreno delle possibilità, come contingenza, - ci viene invece dato già organizzato dentro una struttura gerarchica. La società è sussunta formalmente nel capitale. In questo modo il potere viene tolto alla potenza dei soggetti. Questo peccato originale è un implicito nella storia del pensiero politico occidentale. Per continuare nell’esempio accennato si può allora notare in che modo il valore << pace >> venga giocato su questo passaggio: è la pretesa di garantire la pace che sta alla base della verticalizzazione del potere, cioè della sua perversa semplificazione, cioè della repressione del pluralismo e dell’antagonismo. Qui la pace è concepita come l’elemento di scarico di ogni tensione vitale, come tranquillità di fronte al movimento, come vuoto di fronte al pieno delle passioni, dei desideri, dei movimenti delle singolarità. La semplificazione del complesso: questo è la pace. Ma questo può essere anche puro e semplice terrore...

Ecco perché, dunque, insistiamo e reinsistiamo sul fatto che il concetto di potere, così come può essere definito attraverso la critica, non è altro che il concetto di movimento delle potenze sociali che noi sperimentiamo nel loro pluralismo e nell’antagonismo, che verifichiamo dunque come processo e rete di contro-poteri. E’ evidente che, per riprendere il nostro esempio, noi non semplificheremo i formidabili problemi sollevati dall’intreccio fra movimento dei contro-poteri ed esigenza della pace. Esiste qui una contrapposizione insolubile? Noi non lo crediamo. Anzi. Solo percorrendo questo cammino accidentato, che è quello che la storia e le nostre coscienze ci presentano, riusciremo a costruire a figura positiva della critica del potere. Materialmente.

- 119 -

2. A proposito di movimento, oggi.

Quando diciamo movimento indichiamo quella dimensione sociale che è costitutiva del potere. Come si rivela? Qual’è il rapporto che stringe, al livello attuale dei rapporti di produzione e di cultura, soggetto ed ambiente?

E’ chiaro, sulla base dei presupposti generali della nostra analisi, e cioè sulla base di quel singolare intreccio tra Krisis e Umwelt, fra risultanze critiche dello sviluppo e dislocamento generale delle condizioni di riproduzione, che abbiamo verificato - è chiaro, dunque, che l’inerenza di soggetto e ambiente è qui totale. Quando parliamo di dimensione ecologica come base costante dell’analisi, a tutti i livelli, oggi, noi non facciamo che evidenziare questa inerenza che costituisce la faccia, per così dire, superiore di quell’integrazione dei circuiti sociali che << sussunzione >> e post-moderno ci presentano. Ogni parametro del vivere sociale è oggi dato in termini ecologici - non che questo costituisce una grande novità rispetto alla condizione metafisica del rapporto uomo-ambiente, che sempre ha mostrato questa fondamentale relazione: oggi la modificazione consiste nel fatto che il conflitto che caratterizza, come ha sempre caratterizzato, la dimensione ecologica, non si svolge semplicemente attorno al confronto tra uomo e natura, bensì sul ritmo del confronto fra vari modelli di integrazione uomo-natura. Altrove, e precedentemente in questo stesso scritto, ho molto insistito sul concetto di << seconda natura >>, per indicare in questa categoria il risultato di una trasformazione del rapporto dell’uomo con la natura ed il consolidamento di una specie di nuovo presupposto naturale (che è evidentemente storico, dotato di una certa astrazione, ecc.) alla base dell’analisi dell’universalità umana, oggi. Se ora cerchiamo di definire questo rapporto ontologico nuovo in relazione all’idea di potenza, e quindi se cerchiamo di coniugare l’analisi delle condizioni ecologiche (<< seconda natura>>) con il concetto singolare di movimento ( <<contropotere >>, contropoteri), eccoci davanti al nostro problema.

Stranamente, quando approfondiamo questo rapporto, questo problema, abbiamo una prima serie di annotazioni che sembrano costringerci ad una considerazione << quasi scettica >> dell’oggetto in analisi. Voglio dire che, a prima vista, tutte le determinazioni

- 120 -


che possiamo cogliere in superficie, ci riportano a quell’interpretazione di soggetto-ambiente che, nella sua circolarità, è ineffabile, comunque indifferente e inafferrabile. Si comprende bene, allora, come sul livello teorico e pratico l’ecologia abbia potuto presentarsi come ambientalismo, una specie cioè di fondamentalistica rivendicazione di valori naturali. Il fatto che questi valori, cosiddetti [cosidetti ?] naturali, fossero in realtà irriconoscibili, come tali, che dunque la rivendicazione fondamentalistica si muovesse fra il sogno di un’utopica restaurazione e l’esaltazione di un certo banale e posticcio equilibrio uomo-natura, nulla aggiungeva: l’utopia e la giaculatoria non aggiungono chiarezza all’indistinzione logica che l’assunzione di un rapporto strettissimo uomo-natura nell’immediato determina. Si può aggiungere che anche la definizione di una << seconda natura >> non modifica a banalità, l’insignificanza delle determinazioni che immediatamente emergono dall’integrazione/interazione uomo-natura. Insomma, una volta che la natura sia data come potenza completamente intercambiabile nell’ambiente umano, siamo di fronte all’impossibilità di discernere linee di movimento e tendenze di trasformazione. Non a caso il fondamentalismo ecologico non propone che una sempre potenziale e sempre frustrata alternativa o una paradossale conclusione: la catastrofe. Il fondamentalismo non riesce ad articolarsi se non assumendo il suo opposto come momento di identificazione, di interna autocoscienza, come indice costruttivo.

Se assumiamo di nuovo il discorso sul rapporto tra potere e pace, come traccia ed esempio, possiamo vedere quali siano le metamorfosi mistificatorie del fondamentalismo ecologico. Esso si tende verso la ricerca di un limite naturale assoluto, di una condizione naturale ideale, - ma per definirla, ha bisogno di distruggere le realtà tecniche e storiche che hanno modificato in maniera irriversibile la vita degli uomini. Essendo quindi impossibile questo passaggio, il fondamentalismo chiede aiuto all’immaginario collettivo e, nella ricerca della pace, quindi nell’esercizio di un atto di potere che alla determinazione della pace deve pervenire, cerca di inserire la sua utopica natura. Ma che cos’è quest’utopica natura? Non è nulla di reale, neppure una vestigia o un ricordo, è semplicemente il contrario della situazione catastrofica, rovinosa, che è intuibile dopo l’avvenimento distruttivo

- 121 -


nucleare. La natura è il contrario della distruzione - la pace è il contrario di una guerra più che distruttiva, mortale per l’umanità. Dentro questa opposizione, in realtà nulla si muove. La forza degli opposti è talmente enorme da rendere impossibile l’analisi della singolarità, del corpi, che fra questi opposti vivono e si riproducono. Insomma la circolarità reale del rapporto uomo-ambiente impedisce che del modelli vengano formandosi ed ammette che questi modelli si diano solo come estremizzazione dell’esistente, della sua polarità. La pace diviene così un feticcio, altrettanto vuoto, nel rappresentare l’assoluto contrapasso rispetto alla morte catastrofica, quanto lo era nelle teorie del giusnaturalismo borghese, che assumevano il concetto di pace come momento centrale nella costruzione della sovranità e nella repressione dei contropoteri sociali.

E’ invece, appunto, questo il nostro problema: quello di identificare l’emergere e lo svolgersi dei contropoteri, proprio su quel terreno unificato che << sussunzione >> e post-moderno de finiscono. Un’altra obiezione, tuttavia, ci si presenta dinnanzi. Si dice: se la relazione singolarità/ambiente è tanto stringente, se la diversità può cogliersi solo nella forma dell’utopia, dell’alternativa radicale, nella progettazione totalmente altra, - bene, allora si tratta di sviluppare un programma radicalmente alternativo, che si ponga la totalità nemica come avversario e che, rispetto a questa, si misuri. Ma ecco, anche in questo caso, insorgere alcune difficoltà. Esse consistono nel fatto che anche qui, malgrado tutto, e cioè malgrado la forte attenzione allo specifico, si cade nella trappola della generale indifferenza. Qui l’opposizione, il contropotere, possono essere concretamente identificabili: ma, d’altro canto, qui l’alternativa deve accedere al livello della totalità del potere. Il rapporto simbiotico fra uomo e natura è allora, in questo modo, completamente trasfigurato e considerato su un terreno di totalità che è il medesimo che è attribuibile al concetto di potere. Non se ne esce: si determinano, così, una serie di omologie che impediscono la considerazione del diverso, delle singolarità, del riprodursi di questo e di quella, dentro meccanismi di contropotere. Così, essendo data l’indifferenza del contesto, l’analisi si sviluppa tra Scilla e Cariddi: laddove, su un lato, stanno l’impossibilità di discernere il singolare e il tentativo di riaffermarlo attraverso la

- 122 -


produzione di opposizioni utopiche; su una seconda polarità sta, nel corpo dell’indifferenza, l’illusione di poter recuperare uno spazio politico e teorico, produttivo e riproduttivo, attraverso la totalità, quindi dentro l’omologia con il potere.

Dobbiamo riproporre il problema ab imis. Innanzi tutto giocando su quel punto di vista pratico, etico, di cui abbiamo rivendicato la validità. Ora, a partire da questo punto di vista, l’integrazione tra singolarità e natura non è una condizione statica, ma una condizione dinamica. Il rapporto che la << seconda natura >> fissa, non è un rapporto definitivamente dato - è data semplicemente la capacità di produrre unità fra uomo e natura, in forme sempre diverse e sempre più mature, a partire da quella base iniziale. Insomma la << seconda natura >> è, mi si perdoni il controsenso [contro senso?], una macchina. Ora, in secondo luogo, è appunto questa connessione che bisogna percorrere. Occorre percorrerla nel mentre essa si sviluppa, nel mentre essa costruisce nuovi e più stretti circuiti di integrazione. In questa condizione generale l’uomo si fa potenza naturale appropriandosi della natura. Il movimento reale è movimento di appropriazione. Il concetto di potere è forza che si apre fra le determinazioni già concluse del processo della << seconda natura >>. Il contropotere è appropriazione reale nel mondo della << seconda natura >>. Tutto questo significa che il potere non può essere condotto all’utopia del fondamentalismo né essere omologia con il potere esistente. Il contropotere è una forte e durissima movenza di appropriazione. Esso vive solo laddove può, per così dire, essere in osmosi con la Umwelt storica, solo laddove riesce a sviluppare un rapporto omeopatico con le determinazioni storico-naturali dell’ambiente. Il contropotere è un’esperienza pragmatica che attraversa e sussume l’esperienza e la prassi che su quei territori sussunti sono venute svolgendosi.

Probabilmente il concetto fondamentale che dalla definizione del contesto fenomenologico della prassi oggi si può trarre, è che ogni atto di potenza, sviluppato dalla singolarità, è equivalente su questo livello. Quest’equivalenza è prodotto della sussunzione. L’affermazione è tanto più importante perché insieme essa fissa un metodo e riqualifica una serie di categorie. Fissa il metodo di una costruzione filiforme e plurale del potere. Un potere lillipuziano, il contrario di una generalizzazione del suo concetto,

-123-

eppure tanto potente da riuscire ad imprigionare qualsiasi Gulliver. Una metodologia. dunque, che veda il potere come momento analitico a posteriori, che lo considera come una dinamica che costruisce, in maniera sempre più larga, assetti determinati. Potremmo chiamare questo metodo in termini antichi: ideologia libertaria o impostazione << liberal >> (all’americana), concezione decentrata dell’amministrazione, democrazia di base,… ma ognuna di queste definizioni è parziale. Perché qui, muovendosi no, all’interno di una Umwelt sussunta, e cioè all’interno dell’indistinzione tra sfere diverse - nella fattispecie, nell’indistinzione fra economico e politico, fra produttivo e riproduttivo - bene, in questa situazione, la nostra metodologia è metodologia di riappropriazione materiale. Questa singolare filatura del concetto di potere ci mostra l’unità del livello politico e di quello economico e produttivo. Come vedremo andando più avanti nel nostro ragionamento, vi sono soggetti specifici, individui collettivi mutanti, che sono alla base di questa considerazione del concetto di potere. Qui ci basti continuare ad insistere su questo metodo, su questo punto di vista, su questa ricchissima considerazione delle articolazioni del reale. Il potere è questo.

Di qui si apre la considerazione di alcune altre categorie. Ma una, soprattutto, qui prendiamo in esame quella di legittimità. Altrove abbiamo notato come sempre esista una certa asimmetria fra il concetto di legittimità e quello di legalità (validità giuridica). Qui possiamo dire che questa asimmetria è finita, nel senso che non vi è più possibilità di assumere la legalità come << altro >> dalla legittimità. La norma giuridica non potrà che valere in quanto atto particolare sottoposto alla dinamica del contropoteri, raccolto nella concretezza della dialettica del consenso. Quando si parla di consenso e di legittimità, (che ci piace qui considerare come concetti assolutamente complementari) si parla, dunque, di nuovo, di quel metodo di contrasto, di << compact >>, di articolazione potente e di confronto fra interessi materiali diversi (sociali, economici e politici) - non certo di un equivoco prodotto generale del consenso, non certo di una volontà generale che lo sostituirebbe, e neppure, infine, di figure contrattuali entro le quali si eserciterebbero volontà astratte.

Potere è contropoteri. Potere è l’immediatezza della potenza della singolarità. Potere è movimento, dimensione sociale

-124-

di questo, totalità del rapporto fra soggetto ed ambiente. Potere è contropoteri eguali ed equivalenti, che tutti coloro che operano in una società, possono materialmente detenere. Ma se quest’eguaglianza è tanto reale da apparire come equivalente, la comunanza delle opportunità e dei beni è qualcosa di necessario, di implicito, di presupposto. Il comunismo è un presupposto del potere e non semplicemente un suo risultato. E parliamo a questo proposito di un comunismo pervasivo, etico, che caratterizza tutti i passaggi del rapporto fra uomo e natura, così come sono stati definiti nel processo di storicizzazione dell’universo: il comunismo come movimento, tanto esteso quanto è estesa la vita. Se non è possibile immaginare alcun rapporto vitale fra uomo e uomo, fra uomo e natura che non sia rapporto di potere, tanto meno è oggi possibile immaginare una società non comunista. Il reale che abbiamo dinanzi è illusione. Dietro l’illusione si nasconde la realtà del comunismo. Dobbiamo dunque scavare, rispondere a molti interrogativi: che cosa significa che potere è libertà, che nella particolarità dei contropoteri si annidano prodotti collettivi di libertà, meglio, che la libertà, nascendo dal rinnovato contesto uomo-natura si vuole come comunismo? Tutto ciò siamo venuti fino a questo momento analizzando da un punto di vista, per dire, di superficie. Ora, qui di seguito, dovremo approfondire l’analisi per vedere come questo contesto, questo ambiente, questo rapporto fra poteri, e fra natura e storia, e fra uomini, - come, dunque, questo rapporto di superficie sia organizzato da una macchina più profonda e potente.

3. Il lavoro del soggetto.

Il tema della crisi e la critica del potere che lo attraversa, a partire da quelle caratteristiche di sviluppo e di movimento che sono specifiche della sussunzione, non possono che concludere alla’riproposizione del tema del soggetto. Non esiste processo senza soggetto: neppure la più alla analisi formale è riuscita a darci uno schema plausibile di un siffatto meccanismo, a meno di non proiettarlo sul più screditato degli schermi, quello della ragion pura e dell’analitica. Né il materialismo ha mai escluso il soggetto, anzi la scoperta specifica del materialismo marxiano

-125-

è appunto quella del carattere ontologico del soggetto. Tutte le determinazioni devono infatti rovesciarsi sul soggetto, perché è solo il soggetto che sa esprimere lavoro. Il lavoro non è solo sfruttamento, ma è anche paradossalmente e soprattutto questo: perché attraverso lo sfruttamento passa un attività di rifiuto, di lotta e, conseguentemente, di innovazione: è questa attività che mette in movimento l’intero processo storico. Il lavoro del soggetto è dunque la chiave di volta di ogni determinazione positiva dell’essere. Filando questo tessuto, seguendo la molteplicità dei suoi disegni, noi possiamo allora determinare il rapporto complesso che si stende fra sfondo ontologico e figura specifica del soggetto.

La mia ricerca, e quella di molti miei compagni, si è sviluppata lungo gli anni attorno a questo problema del rapporto fra sfondo ontologico e determinazione dell’attività soggettiva. Il logo << composizione di classe >> ha sempre infatti alluso a questo tema. E’ subito da aggiungere che troppo spesso, ma non sempre, la sua trattazione è stata rigida: il rapporto fra i vari elementi, storici, politici, tecnici, ma anche morali e più largamente etici, che caratterizzano il rapporto compositivo, è stato studiato e descritto secondo trafile lineari. Troppo spesso la dialettica, meglio, una specie di tradizionale e cieca fiducia nel realizzarsi di processi di negazione e superamento: da essi, appunto, è formata la cosidetta dialettica - bene, troppo spesso questa simulazione ideale si è sovrapposta alla concretezza del progetto. Inoltre, di nuovo troppo spesso, gli elementi di volontà politica e lo stesso formarsi della coscienza, sono stati visti sgorgare dalla composizione quasi si trattasse di una conseguenza logica e non invece - come era - di un salto e di un’innovazione storici. Eppure da questa autocritica non può derivare un annullamento delle grosse verità che nell’ambito di quelle ricerche erano state costruite: sia dal punto di vista metodologico che sostanziale.

Dal punto di vista metodologico. Il lavoro del soggetto consiste in due operazioni fondamentali: la prima è quella per così dire centripeta, vale a dire di attrazione ed accumulazione sulla figura del soggetto di tutti gli effetti dell’organizzazione del lavoro che il soggetto stesso coglie come elementi della propria costituzione e sviluppa criticamente verso orizzonti di rifiuto, di lotta e d’innovazione. Vi è poi un’operazione centrifuga: essa

-126-

dipende o deriva o segue alla concentrazione di forza che permette quella costruzione delle soggettività: ora, nel rapporto che si stende tra la soggettività e l’ordinamento oggettivo del reale si determina una differenza di potenziale che, quando si scarica, determina insieme crisi e dislocazione del rapporto dato. Questa connessione fra lavoro e dislocazione del quadro oggettivo è, metodologicamente, il più alto risultato dell’analisi della << della composizione di classe >>. Tutto ciò lo riteniamo come contenuto del nostro conoscere e come strumento ancora importante per proseguire nell’analisi. Né quanto siamo venuti dicendo, potrà certo essere negato dall’approfondimento promesso in questo lavoro a partire dall’estetica trascendentale: perché infatti, quand’anche la relazione fosse spinta su quel limite di scissione fra essere e non essere di cui abbiamo parlato - ciò non ridurrebbe la relazione alla catastrofe ed anche in questo caso fondamentale resterebbe comunque l’apprezzamento dei contenuti progressivi della relazione - ed è rispetto a questi che l’analisi deve sempre essere rinnovata.

Anche dal punto di vista sostanziale il nostro vecchio lavoro lascia, poi, dei risultati positivi, e all’autocritica è dato solo di perfezionarli. La figura soggettiva, nello sviluppo del capitalismo, ci si è presentata in un gioco complesso di appropriazione di forme dell’organizzazione produttiva, ed almeno quattro grandi figure di soggetto produttore sono state identificate come egemoni in singole e successive fasi dello sviluppo: l’operaio indifferenziato, l’operaio professionale, l’operaio massa ed, infine, quella complessa e definitiva figura ch’è l’operaio collettivo-sociale. Siamo nel mezzo della grande trasformazione che, appunto, a questa figura sociale del lavoro sta compiutamente portandoci. Ed è, credo, attorno a questa trasformazione che vale, quindi, oggi soffermarsi e vedere come si svolge il lavoro del soggetto.

Il punto più interessante è quando verifichiamo una concentrazione di nuove capacità produttive. Cominciamo a fissarvi l’analisi. Ora, c’è un nesso sincronico che corre fra tecnologia, società e cultura. Ovvero, c’è un quadro generale entro il quale la tecnologia si presenta come produzione di socialità ed insieme le condizioni generali della società si presentano come elementi di produzione di tecnologia. E’ chiaro che il rapporto tra tecnologia

-127-

e processo sociale, proprio perché investe un così ampio spettro d’esperienza, non è un nesso semplice - né sincronicamente, e cioè se identifichiamo le correlazioni puntuali che processo, soggetti lavorativi e sistema produttivo presentano; né diacronicamente, e cioè quando inseguiamo grandi passaggi storici di modificazione delle tecnologie e delle composizioni soggettive, che si accompagnano. Processo complesso dunque, mancanza di omologie: eppure riproposizione, in tal modo, di un tema fondamentale, ovvero, del tema della crisi e della dislocazione. Osserviamo come venga annunciandosi e come cominci a svolgersi il passaggio verso la composizione dell’operaio sociale e la sua presenza egemone. Una differenza di potenziale, come si diceva, viene qui innanzittutto determinandosi. Il lavoro produce valore: ma questo valore, meglio il plusvalore estorto, non è riunificato e trasformato in valori mercantili ed in profitti monetari sul luogo della produzione; di contro, solo la circolazione (come livello diffusivo, come massimo di estensione del mercato) e la riproduzione (come livello intensivo, di accumulo istantaneo di valori produttivi) ci mostrano il valore stesso. Siamo di fronte ad una modificazione del sistema produttivo che è caratterizzato dal fatto che esso, in termini propri, non produce valore, ma semplicemente ne è il motore di una globale trascrizione sociale. Almeno così appare. In tal modo l’origine del plusvalore è nascosta. Il meccanismo produttivo sociale diviene un velo che nasconde lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non a caso le caratteristiche tremende dello sfruttamento non si riveleranno - né saranno percepite - come immediatamente collegate al lavoro, bensì esse si riveleranno collegate alla società lavorativa - il numero degli esclusi, dei nuovi poveri, degli emarginati, dei carcerati, dei malati, dei pazzi, ecc. ecc., potrà solo essere calcolato sulla dimensione sociale dello sfruttamento. Ma qui l’apparenza si squaglia ed una serie di conseguenze divengono esplicite. La società dell’automazione si mostra come struttura di dislocazione della natura del valore. Non vi è più valore che possa essere riferito all’entità singola di sfruttamento. Il marxismo volgare degli economisti oggi non serve neppure come scienza di gestione. Vale, invece fino in fondo, il marxismo come scienza della società e della sua dinamica: quindi come conoscenza della dislocazione del valore. Il lavoro del soggetto è dunque, oggi,

-128-

sociale nella sua estensione e collettivo nella sua qualità. Sappiamo questo da sempre - si potrà obiettare: ed in effetti da sempre il lavoro è stato sociale e collettivo ed è attraverso queste caratteristiche che esso ha sempre prodotto più della somma degli sforzi individuali. Ma questa obiezione non è molto significativa quando si consideri che oggi il lavoro individuale non è più distinguibile dal lavoro sociale e collettivo. Un tempo, il lavoro collettivo era un risultato, ora il lavoro sociale e collettivo è un presupposto. Avevamo cominciato col dire che ci si trova di fronte ad un meccanismo che non mostra l’estrazione del valore, anzi che la mistifica e nasconde, mentre esibisce su un piano di traslazione sociale l’insieme del valore prodotto dalla società. Ma più procediamo nella discussione e nella ricerca, più avvertiamo di essere dinnanzi ad una specie di autentica seconda accumulazione originaria. Autozione come struttura di dislocazione della natura del valore? Pare proprio di sí. Ma allora ritorniamo al lavoro del soggetto. Se la prima accumulazione originaria è consistita in un processo violentissimo attraverso il quale alla forza lavoro è stata imposta la forma-merce, la seconda accumulazione originaria rappresenta ora l’imposizione di uno schema generale di dominio ad una forza-lavoro che, attraversando il mondo delle merci, ha scoperto di possedere un’ernorme ricchezza ed una infinita sapienza produttiva. La traslazione del valore corrisponde così ad una dislocazione del soggetto. Siamo di fronte ad una delle grandi trasformazioni epocali della natura della forza-lavoro. Se volessimo seguire qui le mille articolazioni di questo processo potremmo farlo senza fatica: ma non interessa e altrove comunque lo faremo. Qui interessa solamente percepire come le leggi generali che regolano il lavoro del soggetto si siano di nuovo rivelate su un passaggio fondamentale, di modificazione radicale del modo di produrre. Di conseguenza, dentro e attraverso, fuori e contro questa trasformazione, si è venuto formando un nuovo soggetto - se è difficile farne un identikit, non è perché le caratteristiche complessive del processo di formazione siano ignorate ma perché una definitiva figurazione può darla a se stesso solo il nuovo soggetto, riproducendosi materialmente ma soprattutto politicamente.

C’è un altro livello, del tutto complementare al primo, rispetto

- 129 -

al quale la ricerca deve ora procedere, muovendo dal vecchio concetto di << composizione di classe >>,: è quello che lega le determinazioni intensive, qualitative, nazionali del tema << operaio sociale >> alle dimensioni estensive, dinamiche e multi o transnazionali. Ci troviamo per la prima volta di fronte ad un processo che tocca i limiti del nostro universo conoscitivo. All’unificazione capitalistica del mondo, alla sua riduzione intera a mercato, corrisponde sia un susseguirsi di lotte, di resistenze e di dinamiche antagoniste sui singoli snodi del mercato - e di qui la necessità di controlli repressivi sempre più efficaci e di dislocazioni produttive sempre più astratte; sia un ripiegarsi mobile ed articolato del comando sulle dimensioni della giornata lavorativa - sicché la sua frammentazione, la sua flessibilità, la sua plasmabilità, ecc. possano essere rigorosamente ricomposte su un piano generalissimo, non perciò meno costrittivo. Prendiamo il mercato mondiale ed imponiamogli un sistema di assi Cartesian: avremo sull’ordinata la mobilità della giornata lavorativa e sull’ascissa l’estensione orizzontale del mercato, con tutte le sue difficoltà e i suoi intoppi. Ma dal quadro Cartesian uscirà, appunto, un meccanismo spazio-temporale completamente modificato rispetto alla tradizione. Questa dimensione, che chiamiamo trans o multinazionale e che comprende anche (non certo in termini secondari) quella figura temporale infranta della giornata lavorativa - questo quadro, dunque, si accompagna strettamente alle determinazioni tecnologiche già considerate. Nella dislocazione del soggetto noi non verifichiamo, dunque, soltanto la socialità della figura produttiva, ma anche questa dimensione multinazionale. Automazione, rottura della giornata lavorativa, mercato mondiale, misurano unitamente, simbioticamente, la figura dell’operaio sociale. Ecco dunque un esempio di dislocazione, un momento paradigmatico del lavoro del soggetto.

II mondo s’è chiuso. Quando tocchiamo questa verità dell’estetica trascendentale, noi non affermiamo una vecchia verità. Noi non ripetiamo quel sentimento di impotenza che spesso ha toccato l’uomo, pascalianamente, davanti all’incombere delle sue miserie. Qui la chiusura del mondo corrisponde all’enorme espandersi di tutte le componenti interne di questo medesimo mondo. Quello che scopriamo non è nuovamente il vecchio mondo medioevale - mondo finito per antonomasia - scopriamo invece

- 130 -

come il mondo infinito della rivoluzione rinascimentale si sia esaurito, rovesciandosi riflessivamente su se stesso, e come l’infinita del rapporti che quell’immagine del mondo conteneva, si sia ora riqualificata dentro sequenze puramente intensive. Vale a dire che oggi il mondo è infinito solamente nella misura della divisibilità, non in quella dell’estensione. Il mondo è infinito verso il suo interno : indefinitivamente plasmabile ma non superabile. I suoi limiti sono rigidi.

Ecco dunque, il lavoro del soggetto pervenire, in maniera definitiva, alla riscoperta, ridefinizione e verifica di quei paradossi dell’estetica trascendentale che inizialmente avevamo colto e definito in termini di immediatezza. Il lavoro del soggetto ci si mostra qui come causa di quella situazione ontologica che l’estetica trascendentale ci attestava in prima battuta. Ora, è evidente qui che il soggetto non è semplicemente un prodotto del movimento storico: esso è il motore di quella serie di rapporti che si stabiliscono in un tutto unico che coinvolge l’ambiente e l’ontologia produttiva. Ciò è un primo risultato: l’unità e l’indifferenza del sostrato ontologico, produttivo, collettivo, sono qui verificate. In secondo luogo, poi, questa matrice pratica che costituisce la soggettività ci pone davanti all’estrema tensione dell’essere: ad un processo che, dislocazione dopo dislocazione, ha chiuso questo mondo su se stesso. E’ al soggetto muoversi, al suo lavoro scegliere di essere o non essere.

4. Lavoro, territorio, libertà.

Stiamo riagganciando ontologia e soggettività. Non solo, stiamo anche rideterminando le caratteristiche storiche di questo rapporto. Un pensiero filosofico che muove dal punto di vista dell’immediatezza empirica, cogliendo in questa l’universalità delle determinazioni ontologiche, non può che procedere, appunto, come procediamo: riflettendo su se stesso, scoprendo in maniera totalmente dispiegata ciò che era implicito, e rivelando il dato dalla cui implicita ricchezza la ricerca è partita. L’estetica trascendentale offre alla dialettica dell’immaginazione vera un terreno di scoperta e di verifica. Il lavoro del soggetto si fa, dunque, soggetto del lavoro: vale a dire che quel lavoro che

- 131 -


abbiamo visto svilupparsi come critica dell’esistente, come costruzione di movimento, come rifiuto di essere preda della produzione capitalistica di soggettività - quel lavoro ora smette << le vesti curiali >> e torna all’abbigliamento quotidiano, che è quello del lavoratore, che è quello dell’organizzazione collettiva del lavoro. D’altra parte, è solo la capacità che deriva dall’aver attraversato le regioni della << sussunzione >>, e cioè dall’aver toccato quell’incredibile misura di astrazione che lo sviluppo delle forze produttive e il comando su di esse ha determinato, a permetterci ora di cogliere il soggetto del lavoro nella sua storica corporeità. Il lavoro astratto diviene corpo. Non è un mistero, non è nuova incarnazione dialettica, tanto meno religiosa o simbolica - quest’incarnazione è quella che il lavoro conosce passando attraverso il macchinario informatico e le reti di telecomunicazione. Quest’astratto diviene concreto perché in esso si sviluppa l’appropriazione materiale dei contenuti di conoscenza che le tecniche e i sistemi producono. Come altrove abbiamo scritto la protesi diviene natura. Di più diviene corpo.

Ma i corpi sono singolarità. Qui lo sviluppo dei paradossi dell’essere nella fase della << sussunzione reale >> si incrementa ancor più, poiché, infatti, non solo quel mondo astratto che è la comune matrice di ogni corporeizzazione, si scinde nelle singolarità - ma queste singolarità assumono dimensioni specifiche, quiddità - e poi identità collettive, potenziali di libertà - tali che alle singolarità si accoppia un fortissimo grado di diversità. La grande rete dell’astrazione è qui percorsa, quasi sostituita, in ogni caso segnata << a contrario >> (ad ogni momento dell’indifferenza si oppone una differenza) da una rete multicolorata di espressioni singolari. Si potrebbe dire che queste due reti rappresentano due aspetti di un gioco ottico: ad un lieve movimento, l’uniformità incolore dell’astratto si tramuta in un trionfo di tinte. La costituzione dell’essere consiste in questo: in questa contemporaneità, simultaneità, di una contraddizione che è antagonista, tra il massimo di astrazione e il massimo di concretizzazione corporea. La regola antagonistica si manifesta qui come regola della costituzione. E’ per questa diversità che la rete dell’astratto si è sconvolta in rete di espressioni singolari. Ultimo, ma non meno importante elemento di questo processo, che ora cogliamo nelle sue fasi estreme, è il condensarsi comunitario di queste

-132-

espressioni. Vale a dire che nello scontro che le oppone alla rete astratta ed uniforme del comando, le espressioni di libertà, di lavoro, di corporeità, raggiungono una sorta di equilibrio che le riterritorializza, cioè sistema gli elementi della diversità dentro una comunità, un territorio umanamente contrassegnato, uno spazio umano.

E’ importante sottolineare questa serie di passaggi. Probabilmente non vi è una legge che determini priorità, sequenze, rigidità - non può esservi. Abbiamo in ogni caso casistiche di percorsi differenziati. Ma ciò che è importante sottolineare è che questa serie di elementi, questa precipitata consistenza di materialistiche determinazioni, ha uno spessore ontologico fortissimo. Nei miei lavori precedenti, troppo spesso ho considerato il rapporto tra i processi di autovalorizzazione e processi di autorganizzazione come termini conseguenti, come tappe di un medesimo progetto - l’autovalorizzazione, la spontaneità del processo visto dalla prospettiva proletaria erano comunque prima, fondanti, ontologicamente superficiali ed evanescenti. Non a caso, di conseguenza, la determinazione aperta dei fili di autovalorizzazione - immagine che qui confermo - mi sembrava scaricare il quadro di caratteristiche ontologiche pesanti. Ci si muoveva nel soft piuttosto che sull’hard. Invece qui vogliamo proprio insistere sull’altro aspetto - vedere cioè come i processi di autorganizzazione procedano, o comunque siano contemporanei, a quelli di autovalorizzazione. Spieghiamoci. Innanzitutto i due processi sono complementari e la definizione dell’uno solo difficilmente (o del tutto erroneamente) può essere fatta senza la definizione dell’altro. Certo, vi saranno crasi, deviazioni, sentieri interrotti: ma è essenziale ricordare che autorganizzazione e autovalorizzazione si iscrivono su un medesimo contesto ontologico. In un secondo luogo, tuttavia, occorre affermare che l’autorganizzazione viene prima di tutto: essa è la via che va in profondità, quasi uno scivolamento tettonico, un radicarsi che non può subire strappi e comunque è capace di una sublime resistenza. Tutti i termini della rete di espressioni che costituisce (nel senso pesante di costituzione) l’essere del soggetto, troviamo qui una sistemazione, un ordinamento interno, una tendenza vitale, per così dire, diretta dalla ragione di queste connessioni. Immanente, autoriflessiva, potente. Di tutte queste caratteristiche

- 133 -


che si può parlare senza attribuire loro qualificazioni organicistiche: la dinamica è descrivibile su un terreno meccanico - quando a questa meccanica sia garantita l’intera dimensione di potenza dell’essere. A me Spinoza è servito per leggere in tal modo, fuori da ogni tentazione organica, fuori da ogni scivolamento idealistico, questa potenza dell’essere. L’autorganizzazione, dunque, precede ontologicamente l’autovalorizzazione. Ma questa precedenza è, come abbiamo accennato, logica piuttosto che storica. Vale a dire che le vicende storiche, nel mentre si danno e variano e si moltiplicano, fanno comunque precipitare ed iscrivono segni sulla corteccia razionale dell’essere. L’autovalorizzazione organizza: ma non potrebbe farlo se questo passaggio attivo non possedesse una referenza solida, una rete dentro la quale collocare il significato degli eventi, un senso secondo il quale organizzarli. Se qui si insiste tanto su questa anticipazione (in ogni caso logica) della potenza ontologica su quella storica: è perché la nostra esperienza ci ha a questo condotto. Cioè a considerare che l’attività etica non poteva sviluppare il suo senso se non quando fosse inserita su un tessuto ontologico e che molti fallimenti, logici e pratici, avrebbero potuto essere evitati se la determinazione pesante dell’ontologia etica fosse sempre stata criticamente posta all’ordine del giorno ed esibita come prima linea di orientamento.

Tuttavia non è certo questa potenza ontologica che, sia pure come sfondo, può fermare la felice vitalità dei processi di autovalorizzazione. Dicevamo prima che i percorsi nell’essere, di produzione dell’essere, possono subire deviazioni ed intralci e conoscere difficoltà. Ma questo non solo è necessario: è anche bello. L’estetica trascendentale raccoglie qui, sia pure in termini di pura superficie, la felicità dell’evento. Ed è probabilmente su questa leggerezza dell’essere che un’eventuale dialettica può essere ritmata. Deviazioni, dunque, intralci, scontri: la potenza ontologica è una rete di contropoteri. E’ dentro questa vicenda, che noi ci ostiniamo a ritenere felice, com’è felice la superficie dell’essere, anche quando mostra risvolti di tragico, - è dunque dentro questa dimensione che le leggi di formazione della soggettività vengono fissandosi. Quelle leggi che, nel paragrafo precedente, abbiamo cercato di descrivere: leggi di condensazione, ma poi di appropriazione e di dislocazione, leggi che

- 134 -


scandiscono il definirsi di identità collettive a livelli sempre superiori. Ma queste leggi di formazione devono essere esse stesse sottoposte a quel ritmo instabile che qualifica il rapporto fra autorganizzazione e autovalorizzazione, che lo colloca, in maniera fragile e pur duratura, dentro un territorio dello spirito e che attraversa con libertà queste temporanee determinazioni. Ogni linearità uniforme è rotta: meglio, può forse essere utilizzata come ipotesi, ma è solo una verifica portata su tutte le vicende del processo che ne convalida il senso ed il significato. Ogni teoria dello sviluppo attraverso determinazioni preconcette, stadi e fasi, è anch’essa rotta: di nuovo, può essere utilizzata come ipotesi di ricerca ma solo quando il meccanismo della ricerca non tenga dietro o si disperda fra pedagogiche tradizioni.

Ogni analisi concreta, fin qui condotta o sviluppata altrove, conferma la correttezza delle qualificazioni e tendenze del rapporto fra lavoro, territorio e libertà che sono state descritte. Torniamo, ad esempio, all’identificazione del soggetto sociale e multinazionale del lavoro e dello sfruttamento: vedremo, in questo caso, come appunto lo sviluppo della potenza produttiva del lavoro abbia raggiunto un consolidamento irreversibile, come sul ritmo di questo consolidamento si siano ovunque formale identità collettive del medesimo spessore. L’ultimo proletariato entrato nel mercato mondiale non deve percorrere tutti gli stadi dello sviluppo per pervenire a collocarsi nel circuito mondiale di scambio delle merci e di realizzazione del valore: tutte le tematiche relative ai prerequisiti sono enormemente semplificate, e non esiste dottrina che possa (in maniera rigida) proporre fissi scenari di sviluppo. Di contro: quest’ inserimento nel mercato, ed ai più alti livelli dei processi produttivi, esplicita momenti di resistenza e processi di identificazione al più alto livello. I rapporti che si pongono fra mercati diversi, vengono in gran fretta sospinti verso un massimo di orizzontalità ed una massima intensità di reciproco ricambio. Questo in generale. Tanto più tutto ciò vale per i soggetti che in questi processi sono insieme collocati (come ad esempio varie frazioni della classe operaia impiegata da una medesima trasnazionale, o diversi segmenti proletari partecipanti ad una medesima filiera produttiva) ed organizzati nelle dinamiche unitarie che corrono la produzione ed il mercato. Sicché l’operaio sociale-multinazionale si trova dinnanzi al

-135-

compito di stringere il rapporto fra le diverse frazioni del proletariato mondiale perché la materialità stessa del rapporto produttivo mostra che l’interesse degli uni e degli altri deve coagularsi su un unico asse. L’internazionalismo non è certo morto!

E’ difficile, per noi stessi che abbiamo vissuto questo periodo, comprendere con quanta intensità questo processo di identificazione di soggetti collettivi abbia proceduto nei tempi stretti della << sussunzione reale >>. Ma è certo che, entro questi tempi strettissimi, è corsa una implacabile iniziativa del capitale. Ed è altresì certo che, di contro alla possibilità operaia e proletaria di forzare la costruzione soggettiva della resistenza, le regole del dominio si sono riproposte a quell’altissimo livello di unificazione, con straordinaria efficacia; e che, quanto più l’istanza di riterritorializzazione attraversava le nuove identità collettive, tanto più da parte capitalistica venivano astratti i modi dello sfruttamento e i contenuti del controllo. Ad esempio, un orizzonte di controllo puramente monetario, simbolico ma non perciò meno efficace, veniva imposto con strumenti terroristici durante il decennio che segue al ‘68 ed alla conseguente crisi nixoniana del dollaro e del petrolio. Da allora la moneta fluttua senza senso - senza un senso che non sia quello dell’adeguamento puntuale ed istantaneo alle necessità di repressione. Così i momenti potenti di autodeterminazione si scontrano ad una capacità di repressione esatta e feroce. Così i processi di appropriazione sono bloccati sul nascere. E ciò che sembrava divenire corpo, è in tal modo confinato all’astratto, ciò che tentava di divenire comunità è condannato al ghetto. Finché non si dia rivolta. Quale rivolta? Quale insistenza antagonistica? Dal 1982 è chiaro come questa resistenza possa formarsi: appunto sul livello e contro il terrore monetario, contro il ricatto e la repressione che si esercita attraverso l’equivalenza generale. Dentro questo passaggio si spiegano, in termini assolutamente espliciti, le dimensioni del rapporto di forza che al lavoro del soggetto sono in questo periodo imposte, - fra il 1971 e il 1982, fra la liberazione nixoniana del dollaro e la rivolta dei paesi indebitati contro la ferocia delle banche e degli Stati centrali.

Lasciamo per ora ulteriori esemplificazioni: su di esse potremo eventualmente più tardi tornare. Quello che invece qui non possiamo trascurare, è di osservare come, a partire dalla situazione

-136-

esemplificata, il livello di resistenza ontologica si sia, per così dire, talmente fissato da rendere pressoché nulla l’elasticità del sistema. Dall’analisi di questa situazione possiamo indurre un’ulteriore modificazione del paradigma. Se non fosse paradossale dirlo in questo momento, e cioè proprio quando la funzione repressiva della moneta si sviluppa appieno, si potrebbe prevedere che, a fronte del grado di resistenza oggi verificata, gli strumenti monetari hanno concluso il ciclo storico nel quale era a loro affidata la funzione centrale nel controllo. Si può oggi, di fronte alle resistenze che contro il comando monetario si sono levate, parlare di capitalismo senza moneta? Non Sarebbe la prima volta che il comando si è esercitato, nella storia dell’umanità, fuori del rapporto monetario. Né l’eventuale conclusione del ciclo del comando monetario del capitale può garantirci [garantirsi ?] che altre adeguate forme di comando non subentrino alla moneta. Ma ciò che è qui estremamente interessante notare, è che, nel momento nel quale la funzione del comando monetario viene meno, gli aspetti, certo non esclusivi e comunque non secondari, progressivi della funzione monetaria, - sono ora fatti propri dal soggetto del lavoro. Voglio dire che quell’universalità di comunicazione e di movimento, quella mobilità e quella leggerezza che il danaro impone agli uomini e alle merci, - ed in tutto ciò è consistita un’enorme spinta progressiva per l’umanità - bene, tutto ciò è conquistato direttamente ed immediatamente dai soggetti produttivi. Nella stessa misura in cui il capitale distoglie dal denaro la funzione immediata, diretta del comando - il capitale oggi propone comando in termini militari e terroristici. Sicché uno dopo l’altro una serie di elementi di libertà si accumulano sul soggetto del lavoro: ma su di esso si condensano nella misura in cui, dall’altra parte, il controllo, il comando, il capitale, estremizzano l’esercizio del potere e ne portano la disponibilità direttamente sull’alternativa fra l’essere e il non essere. C’è una nascente metafisica che si mostra in maniera opposta, antagonista, per il lavoro e il capitale: ora, quanto più si determinano sviluppo e modernità, tanto più questo antagonismo perviene all’ alternativa dell’essere e del non essere, perché a questo punto al lavoro del soggetto è dato il rapporto con l’essere in maniera esclusiva, mentre al capitale è dato, in maniera sempre più stringente, il non essere. Dunque, ogni qualvolta il processo

-137-

complessivo avanza, noi ci troviamo di fronte ad un allargamento di questa alternativa. Ogni qualvolta matura la grande capacità produttiva del soggetto del lavoro, tanto più la biforcazione si scandisce e si approfondisce. Siamo nell’epoca nella quale questa scissione, prodotto della crisi, del suo superamento, delle lotte e del loro futuro, è tesa al massimo dei livelli.

Nell’osservare tutto questo, abbiamo nuovamente affrontato il tema della simulazione astratta, per quanto concerne il controllo dei meccanismi di valore. Altrove abbiamo chiarito come i meccanismi di valore si configurino oggi sul terreno della circolazione sociale, meglio, in forma collettiva; e come, mentre è impossibile riferire all’individuo la determinazione del valore, questa si può costituire attraverso il lavoro di soggettività collettive. E’ interessante allora, sulla base del ragionamento che abbiamo fin qui condotto, aggiungere qualche considerazione su come il rapporto fra astrazione e comando venga disgiungendosi. Vale a dire che nella misura in cui l’astrazione diviene sostanza del soggetto ed il comando tende ad essere unico elemento caratterizzante del potere contrapposto - bene, in questo caso noi ci troviamo di fronte ad un’operazione con una immediata valenza etica. Vale, ancora, a dire che il valore è direttamente implicate in questo processo e che il processo stesso mostra una immediata divaricazione. Così da un lato, a questo livello dello sviluppo, il valore è strappato alla forza-lavoro individuabile e riproposto come figura dell’insieme collettivo delle attività sociali. D’altro lato, invece, ecco che il simulacro diviene pura e semplice falsità, ipocrisia, ideologia. Esso è puro comando, non contiene più l’allusione al valore, non è più neppure mistificazione. E’ violenza diretta, tanto folle, vuota ed assurda quanto lo è il comando di un despota. La simulazione è non essere, è paranoia, autoproduzione fantastica, espressione esasperata di un comando esasperato... Il lavoro del soggetto è il contrario di tutto questo. Questa simulazione potrebbe definirsi come il lavoro dell’oggetto: morto e cieco. Se dal lavoro del soggetto siamo risaliti al soggetto del lavoro e questo abbiamo collocato su un territorio di libertà, - simulazione è, assieme alla negazione del valore, negazione del lavoro, della sua territorializzazione e della sua libertà.

- 138 -

5. Compact: fra diritto e rivoluzione.

Ci siamo fin qui mossi dentro la materialità dei rapporti sociali e la loro immediatezza - che pur abbiamo trovato piena di senso. Ma questi rapporti vanno portati al pieno del loro significato, vanno dipanati e riguardati come elementi di coscienza. Questo compito è urgente: già sul terreno dell’estetica trascendentale lo sviluppo dei rapporti sociali si è mostrato come precipitazione verso un orlo dell’essere che noi abbiamo considerato aperto al nulla dell’essere. Ora, è appunto su quest’orlo, che la nostra necessità di rendere coscienti, e con ciò desiderabili, prevedibili, costruibili i rapporti sociali, si pone con estrema intensità. Questa necessità, sulla base dello sviluppo della coscienza, viene dall’interno dei rapporti sociali - quest’internità inoltre definisce come urgente il compito di sviluppare il processo di presa di coscienza, anzi, esalta la pertinenza dell’impegno. E’ un cammino che viene dall’interno dell’immediatezza: qui si dimostra come assolutamente inutile la mediazione, la presa di distanza che è un controllo sulla genesi dei processi che ci interessano - qui si rivela come vuota la pretesa totalizzante del controllo, della previa astrazione e separazione dei valori che comandano l’esistente. Questi valori sono ricchi. Il reale comprende, nella sua lussureggiante figura, un sottobosco in cui i valori si riproducono, contraddittori ma ricchi. Il sottobosco dei valori è la loro enorme potenza. Il cammino che attraversa la realtà, per promuovere in essa gli elementi di innovazione, di potenza e di creatività, non è quindi (e non può essere) una mistificata, previa e preconcetta selezione di valori - esso si distende ovunque - la vocazione è alla cucitura, al collegamento, all’articolazione del valori. Insomma, siamo al limite inferiore della dialettica trascendentale ma questa dialettica trascendentale non scende da un’analitica qualsiasi, deriva invece direttamente dall’interna articolazione dell’estetica trascendentale e di questa spiega la densità ontologica, trasformando quelle premesse in strumenti di conoscenza più generale e di fondazione dell’etica. Questa deviazione del cammino è prepotente - l’analitica è un fondo inerte della conoscenza e un residuo morto ed antagonistico (antagonistico in quanto morto) della coscienza. Solo questa denuncia, questa dichiarazione, già all’interno del minuto meccanismo dell’essere

- 139 -


singolare, ci indicano l’interiorità della scelta - quest’eterno Cartesian o Socratic dubbio - nell’immediatezza.

Una dialettica trascendentale, dunque, che non sia una teoria della mediazione ed una conseguente pratica cosciente dell’immediatezza: eccoci a fronte di questo compito e delle sue condizioni. Meglio, le condizioni sono presupposte, si tratta di sviluppare il compito. Noi dunque muoviamo dall’interno del reale, dell’immediatezza - vogliamo costruire, ed immaginiamo tutti i passaggi e gli strumenti che possono permetterci di costruire veramente il mondo. Dialettica trascendentale diviene così l’insieme degli strumenti che permettono la realizzazione dell’immaginazione vera - di quell’immaginazione che tenta di raggiungere e contenere e modificare strati della realtà. Un’immaginazione creativa. Abbiamo visto come la rete che chiude l’orizzonte dell’esistenza, sul terreno dell’estetica trascendentale, possa essere strappata quando la sua coerenza è posta a fronte degli antagonismi elementari che la dominano - ora, è appunto su questo strappo che si apre la speranza ricostruttiva... Che contenuto di violenza esistenziale prevede la costruzione di un orizzonte etico, una prospettiva etica di ricostruzione! Non è certo qui luogo di pensiero debole: il pensiero è forte, energumeno - è ricerca di toccare la terra per averne tutta la sua forza. Né pensiero debole è quanto segue a quest’atto di rottura: un venire avanti progettando, mettendo all’opera schemi di conoscenza possibile, collegando momenti empirici e pulsioni ideali. Induzione, ma intrecciata alla deduzione - induzione profonda, quindi, alla Peirce, andar cercando e costruendo, secondo ordini che abbiamo trovato all’interno della nostra esperienza empirica... Ma questo andar per tracce, non è pensiero debole, di nuovo: è inseguire le linee interne dell’essere, è uno sforzo ontologico.

Con ciò cominciamo ad entrare nel merito di quello che più propriamente qui ci interessa. Rispondere cioè alla domanda: come può organizzarsi l’insieme di pulsioni etiche che ci permettono di costruire il rapporto sociale e di controllarlo nel suo distendersi temporale? Che cos’è una dialettica trascendentale dell’immaginazione vera?

Ora, quello che su questo terreno noi sempre di nuovo ci troviamo davanti è il tentativo di chiudere in formulazioni analitiche

- 140 -


il processo costitutivo della realtà sociale. Questo tentativo di bloccare la fantasia creativa e il suo rapporto con l’innovazione reale va sempre battuto. Vale a dire che nello svilupparsi del punto di vista costitutivo deve risiedere sempre uno spunto antagonistico che lo individua. Ma questo spunto antagonistico non solo individua, singolarizza, esso pone anche il problema di come, fra queste differenze necessarie, possa svilupparsi punto di vista costitutivo. Problema: il modo nel quale essa possa determinare la prospettiva della ricostruzione, dello sviluppo dell’immaginazione vera: anzi, questa forza di rottura aumenta ed ingigantisce le differenze e dilata le difficoltà.

Ma perché diciamo questo? Non è vero, al contrario, che il contesto delle differenze è il contesto della ricchezza dell’esperienza? E che un processo costitutivo deve di conseguenza provarsi essenzialmente e soprattutto su questo terreno? Il punto di vista costitutivo è quello della costruzione interna del disegno innovativo, in ogni momento della nostra vita e della nostra esperienza; la costituzione si presenta come un processo umano, sempre aperto, sempre enormemente potente. Quando consideriamo tutto questo, percepiamo allora che la dialettica trascendentale della ragione si rappresenta qui, realmente, come dialettica ontologica fra singolarità, autovalorizzazioni, insorgenze di movimento, - e questo nella figura della differenza. E’ un processo del tutto formativo, che plasma la realtà, che soffre delle sue durezze ma che, nel contempo, di quegli antagonismi fa un momento propulsore. In fondo, il rapporto fra autorganizzazione e autovalorizzazione, e la stessa dialettica che fra queste funzioni si esercita, ritrova in questo formare, in questo processo continuo, la sua ricchezza. La sua articolazione e la sua potenza. Potenza è in effetti questo rapporto continuamente aperto. Il disegno costitutivo è la creazione che il sapere e la volontà esprimono, raggruppando e trasformando gli oggetti e gli uomini e il loro rapporto reciproco. Tutto questo avviene dentro quell’area di sostanziale omogeneità che l’ambiente determina - ogni punto di vista ha una dimensione ecologica cui riferirsi, laddove per ecologia riteniamo l’insieme di tutte le forze che costituiscono l’ambiente, - fisiche, morali, storiche.

E’ qui, dunque. che il discorso si fa esplicito: poiché pone attraverso l’interiorità ontologica, la necessità di riferimento, da

- 141 -


una parte di questa potenza ontologica, all’esteriorità dell’essere. Dobbiamo muoverci [muoversi ?] dentro l’esteriorità dell’essere: la capacità critica consiste in questo, in questo aver portato il pensiero e l’esperienza fino alla loro esteriorità. Ora, si tratta di far incontrare ciò che percorre cammini diversi e vedere come possa, se non accordarsi, certo trovare la maniera di convivere - ma soprattutto si tratta di porre il problema di come le compresenze ontologiche, le contemporanee differenze possono costruire, attraverso il rapporto, nuovo essere, nuova potenza.

Il pensiero sul diritto ha sempre questo vantaggio, fra le varie forme di pensiero dell’essere: ed è quello di proporsi l’esteriorità, vale a dire il massimo della potenza dispiegata. Perché infatti, diversamente da quanto possano pensare i kantiani e tutti coloro che del diritto danno un’immagine banalizzata nella sua esteriorità, - ecco invece l’esteriorità divenire dignità ulteriore del pensiero e massimo punto di creatività, nel momento stesso nel quale essa si presenta come incontro di differenze ed articolazione, terribile e drammatica, di esse. La parola << Compact >> ci piace molto, in questo senso. Essa definisce ogni diritto come diritto federativo - essa scontra il giacobinismo in tutte le sue articolazioni, avendo, del giacobinismo, conosciuto preventivamente ogni possibile perversione. Essa mostra le differenze all’opera nel costruire l’ambito normativo della convivenza, della collaborazione, della costruttività sociale - senza nascondere come quest’ambito sia anche, e comunque possa essere, quello della dialettica distruttiva, fino all’ultimo antagonistica e feroce. Il diritto non nasce dall’attualità della pacificazione - nasce solo dalle condizioni di << compact >>, dalla possibilità di una pacificazione, meglio, di un passaggio in avanti del contrasto fra forze sociali, fra le soggettività antagonistiche, che sia tale da arricchire l’intero ambito della conoscenza e dell’interazione umane. Su questo termine << compact >>, sul contenuto federalistico e nello stesso tempo fortemente dialettico che esso comprende, noi naturalmente proseguiremo il discorso: ma quello che qui, metodologicamente almeno, va sottolineato, fortemente, è il fatto che solo la differenza crea diritto, ed il suo immediato e forte riconoscimento.

Ma occorre essere chiari. Il diritto non toglie la rivoluzione. E’ curioso notare come ogni concezione realistica del diritto, spesso

-142-

molto aperta e sinceramente progressiva, veda quest’ultimo come forma nella quale la rivoluzione si organizza. E’ questo l’ultimo modo di togliere la rivoluzione: considerare che il diritto la organizzi. No, è la rivoluzione che organizza il diritto. Con ciò il diritto diviene normatività, tessuto nel quale si determina una trasformazione continua degli assetti sociali - insomma, è nel rapporto potente fra rivoluzione e diritto che si formano gli strumenti della costruzione continua della dialettica trascendentale, - tentativo di raggiungere il valore a partire dal reale, di autovalorizzazione a partire dal fatto di consistere ontologicamente. Altrimenti il diritto è solo comando idiota, buco nero nell’insieme collettivo delle coscienze, resto distruttivo dell’esistere. Dunque, quando la totalità si oppone alla differenza, o lo fa in quanto essa è pienezza delle differenze, ed allora è rivoluzione - e conseguentemente diritto - e ancora rivoluzione e diritto, ecc. - oppure la totalità è vuotezza delle differenze, ed allora il diritto è la forma zero del potere, l’organizzazione della pura volontà di potere spinta alla distruzione degli uomini e della loro capacità di immaginare sempre di nuovo il reale.

Il reale è un contesto di contropoteri. Il soggetto si configura come contropotere. Meglio sarebbe dire come potenza, come contropotenza, per definire l’inerenza dell’antagonismo alla definizione della potenza stessa. La potenza non solo esprime un contenuto metafisico ontologicamente originale, essa sviluppa anche una specificità, un differenziale che nasce dall’antagonismo, dalla particolarità, dalla singolarità che la contraddistingue. Ora è in questo gioco che la rivoluzione, dopo averlo legittimato, si differenzia dal diritto. Fra diritto e rivoluzione, infatti non c’è solo una differenza di potenziale: il primo è più debole, la seconda è più forte. No, c’è qualcosa di più - ed è la caduta di ogni omologia con lo stato nello svilupparsi della rivoluzione mentre il diritto può esistere anche in società statali - anche se esse sono società di morte. Il rapporto fra la rivoluzione e lo Stato, anche se la rivoluzione passa attraverso il diritto, è invece - lo ripetiamo - di nessuna omologia. La dimostrazione di questa affermazione va, com’è evidente, riportata all’analisi ontologica. Il tema dell’omologia, questo tema così profondamente criticato - ma prima di tutto posto all’ordine del giorno - da Foucault, bene, esso ormai domina i nostri pensieri. L’analisi ontologica apre alla

-143-

scelta dell’essere etico. E’ perciò che noi vogliamo distruggere ogni omologia con il passato, con quella concezione del potere che ci ha imprigionato. Il diritto non toglie la rivoluzione - ma la rivoluzione che si articola a quelle figure del diritto naturale alle quali noi ci richiamiamo, toglie comunque lo Stato. Il reale è un libero contesto di contropoteri. Rivoluzione e diritto, se vogliono esser degni dello stesso nome, nascono sotto la stessa coperta.

Eccoci dunque a poter descrivere l’ampio e variegato gioco sul quale si esercita il << compact >> delle energie soggettive - questo terreno ampio, dentro il quale si formano e si distruggono i soggetti, ma che mostra sempre, di conseguenza, un disegno, un ordinamento. Questa vita del diritto e della rivoluzione, che nasce dal medesimo movimento, dalla medesima origine, - ecco, questa è la linea che dobbiamo seguire. Altri lo ha fatto dal punto di vista della genealogia della morale, altri dal punto di vista dell’intreccio fra istituzioni e volontà politiche - ma nel passato, guardando indietro a quanto era avvenuto, sia pure per averne un’indicazione positiva nel futuro. Per la teoria. Qui noi ci muoviamo sul terreno del presente. Riprendiamo quell’aurea linea teorica che è stata di Machiavelli, Spinoza e Marx - la prendiamo come si prende un’arma, pronti a colpire. E’ la linea del sapere pratico, del sapere che incide sull’ontologia, che in ogni momento opera quel miracoloso effetto che è il coordinamento tendenziale delle soggettività quand’esse siano intese alla costruzione del reale.

E’ assolutamente necessario togliere di mezzo qualsiasi sospetto di idealismo, quando si affronta questo tipo di analisi e si insiste su questa metodologia. Non è difficile comprendere che questo approccio metodologico non solo non è intenzionalmente idealistico - non lo può comunque essere: perché è la materialità delle istanze soggettive che qui si confrontano, ad escluderlo. Quando dico materialità delle istanze soggetttive [sic, soggettive] intendo tutto quello che cade nel potere dell’uomo, ovvero gli oggetti e le idee, che egli usa. Il concetto di prassi è materialistico non perché ripeta insulse definizioni meccanicistiche: non le ripete, infatti - ma perché comprende questo formarsi complesso del reale come conseguenza di atti diversi, ognuno dei quali ha una sua resistenza, una maggiore o minore elasticità, un potenziale diverso

-144-

ecc. ecc. Qui tutto si crea e si distrugge. Non ci sono avveniri diversi da quelli che l’uomo costruisce, collettivamente, per se stesso e per la propria collettività. Quando risalgo appunto a quell’illustre tradizione alla quale mi richiamo - a Machiavelli, a Spinoza e a Marx - ai quali posso aggiungere alcuni nomi della filosofia contemporanea e, di nuovo a mezzo fra la modernità ed il presente, il ricordo del mio eroe Leopardi - dunque, in questo quadro io allontano non dico l’accusa ma solo il sospetto di idealismo. A meno di non considerare il materialismo come, ero giovane, alcuni marxisti di scuola sovietica lo intendevano: un catechismo per bambini scemi!

Mi sembra che quanto sono venuto fin qui dicendo, sia da tempo consolidato in un sapere che si intende quale prodotto di movimento, cioè di un processo collettivo, di trasformazione. Ma ecco, di nuovo, qui vicina, una obiezione seria: di quale diritto, dunque tu parli? Non hai sempre considerato, nelle tue precedenti opere, ed in consonanza marxista, il diritto e lo Stato come equivalenti? Ed ora come puoi dimostrare che il diritto è rivoluzione e non Stato?

Ora, non è per gioco che ho fin qui, nei capitoli che precedono, tanto insistito sul rapporto fra livello ontologico e livello storico, che ho tentato di spiegare come l’autorganizzazione venga prima e non dopo dell’autovalorizzazione. Non è per gioco che ho tentato di far capire come un nesso ontologico o comunque un momento di ordinamento interno della coscienza, non solo non siano opposti ma centrali nell’organizzazione del movimento esterno della coscienza e nella stessa formazione delle soggettività. Ora, detto tutto questo, e inserita, come fosse un segno di caratterizzazione profonda, la legge dell’antagonismo nel mezzo dello stesso meccanismo dell’individualismo, il diritto sembra possa essere recuperato al pensiero rivoluzionario. Come? Forse quel diritto del quale tutti abbiamo subito la pazzesca idiozia e volontà di repressione? L’arbitrio e il gioco al massacro, la simulazione e la ferocia della condanna? No, non è di questo che si parla - si parla invece della possibilità-necessità di far nascere un diritto come ordinamento aperto e vivace, vivente e forte, dall’interno del processo rivoluzionario, dall’interno del processo di distruzione della rigidità burocratica del mondo che conosciamo. Un diritto completamente impiantato nella

- 145 -

libertà collettiva - un diritto mai vendicativo e sempre aperto alla gioia dell’innovazione.

Non vorrei più usare la parola diritto. E’ una parola sporca, è una parola che sporca alcune delle realtà che descrive. Intendo, le realtà nuove. Un ordinamento che nasca dalla vitalità collettiva e che si formi sull’urgenza di distinguere l’essere dal non essere, la violenza distruttiva da quella creativa - un diritto siffatto lo abbiamo spesso conosciuto e, quando lo abbiamo conosciuto, lo abbiamo amato. Ora, noi vogliamo seguire questa strada che abbiamo indicato e riconoscerla. Coordinamento di soggettività, coordinamento tendenziale, - abbiamo detto. Sia chiaro: nulla è precostituito, tutto è aperto, è giocato in quanto è giocabile attraverso mille tendenze. Che cosa significa allora coordinare, che cosa significa tendenza? Per rispondere non possiamo che riportarci a quanto abbiamo più volte ripetuto - e cioè che una sorta di condensazione è quella che, in maniera centripeta, si forma nello sviluppo delle forze soggettive che costituiscono le singolarità rivoltose, sovversive, cariche della dignità dell’essere e della liberazione. Che poi una specie di catastrofe si scatena, e su questa catastrofe di tutti i sensi finalmente si inquadrano nuovamente le figure dell’essere. Nuove composizioni si danno. Nuovi orizzonti si definiscono. La genealogia è ritornata ad essere cosmogonia - meglio, cosmologia, ma dentro, per un mondo che è completamente e definitivamente astratto: tra questa astrazione, non come medietà bensì come tendenza materiale e sempre di nuovo costruita, e sempre di nuovo verificata, il movimento del mondo va compiendosi. La sua ontologia è a posteriori, non esiste per essa necessità metafisica - ma è ben vero che una volta formatasi essa assume la verità dell’analitico. Senza esserlo, negandolo. Analitico a posteriori.

Eccoci dunque al termine di queste pagine e dello sviluppo di questa tematica. Abbiamo visto quanto il concetto di << compact >> ci possa concedere in termini di ricchezza e di utilità sistematica. Fra diritto e rivoluzione noi veniamo così raccogliendo gli elementi fondamentali della nostra ipotesi. Essa riconquista la metafisica per porla in prime piano sul terreno materialistico e ateo dell’analisi - sul terreno soggettivo della costruzione. Il senso della costituzione si traduce nel reale. Nell’operatività grandissima

-146-

delle mute e mille energie che all’interno di esso si formano e si sviluppano. E’ un fiume quello che ci corre davanti: ma noi sappiamo che potremmo essere dentro ogni singola corrente che questo fiume, infinitamente, compone. Lo abbiamo visto nella nostra esperienza rivoluzionaria, ogniqualvolta l’abbiamo vissuta onestamente. L’abbiamo visto nella storia dei processi rivoluzionari e soprattutto nella formidabile avventura leninista e maoista. Ora, e forse in maniera più importante (dell’orgoglio della ragione occore [occorre?] andar fieri, se è vero che per esso l’Eden fu perduto) - ora dunque, queste gigantesche esperienze noi possiamo raccoglierle in uno schema ideale. Erasmo viene prima di Lutero. Melantone viene dopo: mi trovo ad essere l’un l’altro, al servizio di un Lutero eterno.

6. Il concetto di pratica sociale.

Siamo così giunti al termine della nostra ricerca. Essa s’è mossa da una fenomenologia del presente che ci ha mostrato come noi fossimo costretti a vivere un reale, completamente trasfigurato dallo sviluppo del capitalismo. E’ stato difficile riconoscersi li dentro - siamo stati risucchiati in una circolazione dalla quale non riuscivamo a liberarci ed i paradossi che immediatamente apparivano, ecco, essi pure erano per noi elementi di prigione e non momenti di liberazione. La prigionia dell’esperienza era nello stesso tempo prigione linguistica - la filosofia contemporanea si sviluppa in questo senso, raggiunge questi formidabili limiti - sono i limiti di un’illusione che non sa rompersi e non è possibile andare oltre a riconquistare il reale. Ho vissuto questo sviluppo nel mio pensiero, - assieme alla mia generazione, alla mia epoca. Marx ci ha mostrato, nello sviluppo del capitalismo, quello che Wittgenstein ci ha mostrato per lo sviluppo della filosofia borghese: la sussunzione reale, dove il linguaggio diviene la gabbia sociale che tutto comprende, e non c’è possibilità di romperla né di cogliere di là da essa un reale vero, un terreno su cui posare i piedi, una base che ci strappi all’irruenza del fiume della circolazione.

Eppure, sul limite estremo di quest’orizzonte, al quale pure eravamo obbligati, ma non solo, schiacciati piuttosto, legati – su

- 147 -


questo limite, ecco la crisi mostrarsi in termini estremi, - non è la nostra intelligenza che ci porta di là del reale, né il nostro desiderio - vorrebbero: ma solo la violenza del reale, in questo caso, della contraddizione, dell’estremo antagonismo, vi riesce. Questo mondo chiuso e disperato nel quale ci siamo trovati a vivere, nella figura del quale l’intera storia del razionalismo occidentale si chiude - mostra un limite nel suo proprio cuore. Questo limite, lo sviluppo ci mette dinnanzi: è la scelta fra l’essere e il non essere, fra il continuare ed il finire - è la scelta della vita o della morte. Insomma, v’è un punto, dentro la circolazione totale dell’irrazionale, che sfugge alla circolazione, alla mistificazione che in essa si rivela - è il punto sul quale una scelta diviene possibile. Quel mondo che si è sempre nuovamente composto davanti a noi, fino al punto nel quale la composizione sociale e la stessa composizione di classe, si sono mostrate come prigione, quel mondo dunque ora viene rovesciato: deve essere scelto, quel mondo, perché la sua conclusione è la morte. Ma laddove vi è morte, là c’è anche la possibilità per la vita di riapparire. Essa deve riapparire, come alternativa. La vita non la troviamo più - laddove la troviamo. Essa è gettata all’irrazionalità ed alla possibilità di morte - la vita non la ritroviamo, bensì la ricostruiamo. Questo paradosso è il termine della nostra vita passiva, del nostro subire. E’ l’inizio del nostro desiderio, della vita attiva. Il principio della pratica sociale si determina solo a questo punto. La pratica sociale, nasce, si mostra, in primo luogo, come scoperta della tessitura ontologica della costituzione sociale. Nella crisi che lo sviluppo della razionalità occidentale ci ha proposto, noi scopriamo che la costituzione, che il principio costitutivo dunque, precede la composizione dell’essere, la sua datità. L’essere è quello che noi vogliamo, che noi accettiamo essere. E ciò, almeno nel momento più mostruoso dell’esperienza collettiva, e cioè laddove la scelta diviene esplicita fra la vita e la morte, fra l’essere e il non essere. Il concetto di composizione porta con sé la pregnanza di una relazione dialettica, di un fare soggettivo - ma non ha la potenza formativa del costituire, e la complessità della composizione deve perciò dissolversi nella felicità della costituzione, nella serie di rapporti innovativi, nella radicalità che questa ci mostra. Eccoci allora nel mezzo di questo cammino costitutivo - il principio della pratica


- 148 -


sociale, che qui dobbiamo solo definire, è il principio creativo: un cogliere, analizzare e percepire, formare e sviluppare, costruire e seguire quelle linee che la volontà, il sapere, il desiderio costituiscono. Immediatamente.

Mille obiezioni vengono opposte a questa determinazione. In particolare la mentalità metafisica insegue sempre il reale, non per costruirlo, non per identificare regole e situazioni nelle quali il processo della datità e della passività possa essere invertito, - al contrario, sempre la metafisica ci rinvia, di mediazione in mediazione di ipotesi in ipostasi, a quel sostrato cieco e violento, sul quale l’essere inutilmente ripete una vuota identità. Il principio della pratica sociale è la negazione di tutto ciò. E’ il punto sul quale, poco o moltissimo - ma quasi sempre poco, un frammento, una traccia, eppure un elemento creativo - è creato. La pratica sociale nasce su questo limite, ed è qui che essa mostra quanto sia incontenibile questa sua pochezza: un atto di resistenza, di rivolta, di gioia, un atto intrattabile - l’essere che appare, e distrugge ogni blocco ed ogni compiacimento della miseria. Un atto che costituisce, un atto che mostra che la pratica ci pone effettivamente sul terreno della prassi costitutiva e che in ciò l’essere è raggiungibile e plasmabile. Il mondo della costituzione ci si rivela a questo punto come qualcosa che davvero non può essere mistificato. La scoperta alla sua base, di un concetto di azione, la scoperta che l’essere è fondato su un’operazione etica, tutto questo ci mostra il mondo della costituzione come un mondo che è segnato dal correre di fili magicamente costruttivi. Cartografie etiche, tessiture ontologiche, filature di atti, di operazioni dell’essere e dell’azione etica, insieme.

Quest’ontologia etica ha le caratteristiche di un orizzonte ecologico. Noi ci troviamo dentro, e di essa conosciamo già l’aspetto molteplice e le molte vite e le molte variazioni, e i fili che a percorrono e che ci permettono di orientarci. Siamo in essa immersi come in un mare vasto, del quale conosciamo molte articolazioni. Ma sempre di un mare si tratta - se vogliamo trasformarlo appieno in macchina controllabile, se vogliamo compiere quest’opera difficile ed onerosa, allora dobbiamo accettare di muoverci in esso... fino al riconoscimento dell’impossibilità di mettere questa macchina in nostro possesso. L’appropriazione

-149-

è un processo che non riesce a farsi macchina risolta. La macchina è sempre irrisolta. Lo sfondo ontologico, che pure costituiamo, non si fa afferrare. L’ontologia è un’epistemologia - ma un’epistemologia solo dell’attraversamento - l’essere ecologico non può essere afferrato. Un attraversamento. L’epistemologia qui si segnala come una tecnica che solo a posteriori è comprensibile. Procediamo nell’essere - solo segni, tracce, sintomi, quelli che afferriamo - essi si aprono verso tendenze, che si aprono a loro volta. Verso dove? Anche queste tendenze non sono definitive - la struttura ecologica, in maniera caratteristica, reagisce come insieme di tendenze, sensi, e diramazioni - fino al punto in cui un nuovo equilibrio viene formandosi - ma anche questo, e queste macchine che lo esibiscono, e in generale queste stabilizzazioni del movimento dell’essere, non sono preformate. Perché l’ecologia non è uno stato, è un soggetto dinamico.

Ma come? Come possiamo rompere questa situazione nella quale la pratica sociale è presa dentro le mute antinomie e dentro le mille vegetazioni dell’ontologia della trasformazione? Ci siamo riconosciuti come partecipi di un orizzonte teorico e pratico autoreferenziale, di una fenomenologia chiusa, di un’insensatezza fondamentale - attraverso la percezione di quest’insensatezza, e del dolore che ne segue, abbiamo posto la domanda sulle condizioni di questa realtà, e del suo rovescio. Come possiamo, ora, dare all’atto costitutivo che è elemento di rottura del labirinto, di vendetta contro Babilonia, come possiamo dunque fissare una ragione della << pratica della pratica >>? Dico della << pratica della pratica >>, perché alla sola pratica è già concesso il vivere e il costituire - ma insensato. Esiste, e come si definisce, una << pratica della pratica >>, che ci permetta di rompere la volgare meccanicità di quest’universo che ci chiude?

Il concetto di pratica sociale è un concetto di pratica della pratica. E’ concetto di una decisione, di una scelta, di un passo in avanti decisivi. Qualcosa che ha l’intensità di un atto religioso, di un’operazione orgiastica. La pratica della pratica è la costruzione della pratica, il possesso indiziario ma efficace della sua macchina, è l’atto di innovazione ontologica. La pratica della pratica, e cioè il concetto completamente dispiegato della pratica sociale, è un surplus ontologico che

- 150 -


noi aggiungiamo all’orizzonte del mondo.
Certe volte non so spiegarmi: questo è il caso. Sono davanti ad un momento di modificazione dell’essere che non può essere concluso nel rapporto fra le mille determinazioni del divenire. Qui il rapporto fa un << piccolo salto >> in avanti - e si arricchisce, in maniera straordinaria. Qui il principio della pratica sociale, della pratica della pratica, cioè della riflessione del fare su stesso, si fa principio del soggetto. Il lavoro è la pratica, è la pratica che si spinge su se stessa. Il soggetto è la consolidazione del lavoro. Ed e così che questo innova: costruendosi, costruendo, trasformando il reale in sempre nuovo reale. Non so spiegarmi con me stesso, perché questo progredire è un processo indefinito e senza limite - sempre verso una comprensione maggiore, - che mai saprà darmi un concetto bell’e fatto e mettermelo fra le mani - riuscirà tuttavia a darmi una capacità sempre maggiore di comprendere. E di costruire. E di desiderare. Questo modificarsi è una pratica, una pratica inflessibile, una spada conficcata nel tempo, garantita dall’essere, dalla modificazione che sempre procede e costruisce: costruisce essenza. Il processo dell’ontologia si modifica. L’ontologia viene dopo, è il prodotto dell’essere vivente. L’ontologia non è più un presupposto, ma un prodotto. Prodotto della pratica, prodotto della soggettività.

Questa conclusione è epistemologica: vale a dire che nel principio della pratica si forma qui l’ontologia della conoscenza. Ma perciò stesso questo principio non è concluso: possiamo e dobbiamo parlare di inconclusività dell’etica - l’ontologia, noi la formiamo, ma la formiamo solo nella misura in cui continuiamo a formarla, a costruirla, a fissare criteri di direzione e di dinamicizzazione etiche. L’etica è conclusa. Essa costruisce essere stendendosi in un tempo reale, infinito nella sua estensione, nella pluralità che lo costituisce, ed indefinito nella sua durata, nella susseguente riapparizione [riparazione?] di mondi, di orizzonti, che forma il suo incedere. Ed è all’incrocio di questo meccanismo, di determinazione ontologica e indefinitezza etica, che si forma la singolarità, - singolarità dell’evento e del soggetto, singolarità dell’atto e del sostrato. La pratica della pratica consolida il principio del soggetto solo astrattamente: concretamente, singolarmente, questa pratica costitutiva attraversa mille emergenze e fissa mille precipitazioni di eventi. E’ una rete di antagonismi,

-151-

reali e storici, di discriminazioni, logiche ed etiche, quella che si forma dentro questo incedere dell’essere. L’essere si forma in maniera continua, instancabile - la sua formazione non è altro che un continuo sovrapporsi di strati dinamici, una meccanica di argomenti e di alternative, che si conclude, di volta in volta, su singolarità specifiche. La pratica sociale diviene costituzione del soggetto, in termini propri, in termini veri, solo quando attraversa questa grande quantità di occasioni ontologiche, di singole costruzioni ontologiche. La pratica della pratica, la riflessione della pratica su se stessa, diviene elemento definitivo nella storia dell’ontologia, nella genealogia dell’essere, solo quando si accompagna ad una specie di sovrabbondanza nella costruzione di infinite sintesi, mai concluse, di singolarità, - sintesi aperte su ogni lato, e su ogni lato debordanti.

Di nuovo insorgono difficoltà di descrizione - meccanismi di rottura si accompagnano ovunque allo sviluppo dell’epistemologia costitutiva - di fatto, non riusciamo a fissare delle leggi generali - ogni omologia costitutiva è tolta - noi riusciamo solamente ad esaltare la singolarità e a considerare la singolarità come elemento che non può essere racchiuso in sequenze rigide. Si sviluppano tipologie costitutive - questo è il massimo dello sforzo sistematico cui possiamo accedere. Tipologie costitutive che ripetiamo sulla base dell’analogia empirica, e non sulla base di qualche criterio di scientificità. Quella rottura che il principio della pratica della pratica ha innanzitutto cercato, per definire se stesso, noi la ritroviamo ora come un dato - un dato che qualifica le tipologie, le distingue l’una dall’altra, determina - insomma - ogniqualvolta una singolarità è nata - un rinnovamento del senso dell’indefinitività del cammino della pratica. Il momento di determinazione ontologica è anche quello sul quale l’indefinitività del cammino etico si propone. La fissazione epistemologica dell’oggetto è definizione dell’inconclusività etica del soggetto.

La pratica della pratica sociale: è così anche questo continuo ritorno che la pratica é costretta ad operare su se stessa. Nell’oscillare fra certezza epistemologica e inconclusività etica, la pratica è costretta a piegarsi continuamente su se stessa, a riflettere. Riflessione della pratica su se stessa: non è dunque un principio idealistico, né un principio di autocoscienza o solamente

-152-

di critica o autocritica - riflessione della pratica su se stessa è pratica della pratica, è un fondare essere e un prenderne le distanze, ma solamente in maniera pratica, e cioè attraverso la continua costruzione di essere, di nuovi scenari teorici e di nuove prospettive etiche dell’agire ontologico.

Perché allora non chiamare semplicemente rivoluzione questo movimento della pratica che costituisce essere, nello stesso momento in cui riflette su se stesso e propone un’instancabile e obbligata continuità del processo? Fra limiti e superamenti, che non hanno senso unitario ma solo determinazione e senso singolare? Perché allora non chiamare semplicemente rivoluzione la pratica della pratica, il concetto della pratica sociale?

Per rispondere a quest’ultimo quesito - ultimo nell’ordine della nostra ricerca - occorre rispondere che il concetto di rivoluzione è stato spesso confuso con operazioni politiche di dubbio senso e che spesso si sono intrattenute sulla più screditata superficie della storia. Noi siamo disposti a riprendere il termine rivoluzione solo se riusciamo a ricondurlo al significato ontologico della locuzione. Rivoluzione: accettiamo il termine solo se esso ci indica una modificazione della sostanza profonda del tempo storico, una trasformazione delle anime, una mutazione dei soggetti. C’è un punto di equilibrio, nella definizione del concetto di rivoluzione, - un punto di equilibrio ontologico che troviamo piazzato fra il senso del tempo lungo di Tocqueville e il principio di salto qualitativo, di catastrofe storica, che è di Lenin. Entrambe queste tendenze toccano la dimensione profonda dell’essere, - e non è nostra l’abitudine di distinguere specie, raffinate o meno, dell’essere. L’essere è l’essere. Non feticizziamo il tempo lungo o la catastrofe: entrambi possono intervenire in maniera rivoluzionaria sull’essere, - è quest’effetto che ci interessa, è quest’irriducibile qualità che ci piace. Ora, dunque, il problema è solo quello di strappare al concetto di rivoluzione le connotazioni estremistiche, utopiche, politicistiche, che contiene. Di rendergli le caratteristiche storiche, profonde, innovative, di mutazione, che possiede.

Pratica della pratica diviene allora allusione a quest’evento dell’essere. Rivoluzionario è dunque ogni atto della conoscenza che modifica i rapporti di potere, esprimendo potenza ed innovazione. L’innovazione dell’essere si realizza laddove la potenza la

-153-

vuole. La relazione fra potenza delle singolarità, lavoro del soggetto ed innovazione dell’essere è, come sappiamo, non lineare ma certamente esistente. Noi non possiamo descriverla in maniera definita, non possiamo ricondurla a motivi astratti - ma possiamo viverla. Quell’evento dell’essere che chiamiamo pratica della pratica, principio rivoluzionario della pratica sociale è, più semplicemente, rivoluzione - è dunque una testimonianza continua e comune della nostra appartenenza all’essere collettivo, e sua trasformazione, sua mutazione. L’alternativa si alza, fuori della continuità indifferente della circolazione dei valori assoggettati dal capitalismo, e quest’alternativa si fa creativa. Creativa di altro essere. Basta che passi nella coscienza, questo principio di mutazione, in una coscienza - di lì, da questa ricchezza discende allora a rivoluzione.

Ritorniamo, ricollochiamoci nel paesaggio che ci è stato offerto all’inizio della nostra ricerca. Un orizzonte nel quale tutto circolava e l’epistemologia lineare di un comando astratto sostitutiva senza posa, al presente ed alla sua pesantezza, orizzonti insignificanti e funzionali. Abbiamo attraversato quest’orizzonte - lo abbiamo riconosciuto - abbiamo scoperto che, malgrado la sua atroce crudeltà, questo orizzonte costituiva la nostra seconda natura. Dentro la dislocazione che con ciò si determinava, era a noi dato, tuttavia, scegliere. Meglio, lottare. Lo abbiamo fatto. Abbiamo scelto se accettare o no che la seconda natura - dentro la quale, comunque, la nostra energia vitale e le nostre capacità costruttive erano moltiplicate - restasse nelle mani del vecchio potere, fosse assoggettata all’inerzia dell’antico potere. Un potere che annullava l’essere, che ne riduceva ogni qualità all’indifferenza ed ogni tempo a zero Abbiamo rifiutato. Nel rifiuto sta la nostra dignità. Nell’approfondimento del rifiuto, nel ricominciare la nostra bellissima via attraverso l’essere, nel ritorno all’essere, al senso della mutazione, sta principio di rivoluzione. La pratica della pratica sociale lo rinnova.

-154-

Continues...

Back to Book Index