¦¦ Index ¦¦ Reference ¦¦ Translations ¦¦ Negri ¦¦ Recent Additions ¦¦
PARTE III

Fra catastrofe e ricostruzione.
Appendice.

1. Erkenntnistheorie. Elogio dell’assenza di memoria.

Lascia stupiti l’iterazione della dichiarazione che il ‘68 è morto. Per non dire del ‘77. L’informazione di regime recluta suoi funzionari sulla base di un’esplicita vocazione: farò il becchino, quindi il giornalista politico, ecc. Il paradosso si ingigantisce quando si avverte che la memoria esistente del ‘68 e del decennio successivo è ormai solo quella del becchino. Il rinvio a giudizio del 7 aprile è memoria del becchino: la cerimonia (ma ciò si deve allo scarso gusto degli autori) ha poi il grossolano fasto del funerale meridionale. Avrebbe potuto essere più elegante. Peccato!

Forse per questo il proletariato metropolitano, da Berlino a Brixton, da Napoli a Zurigo, da Amsterdam a Varsavia, conosce la realtà ed è rivoluzionario secondo dispositivi che la memoria non gli ha consegnato.

Quello che mi interessa è dunque la mancanza di memoria. Come possano esistere un sapere rivoluzionario - ed esiste - ed una teoria della conoscenza su questo terreno - teoria che è effettuale - fuori dalla memoria storica del movimento, indipendentemente dalla sua continuità e dalle sue cesure e dai suoi problemi? La mancanza di memoria: la pongo a problema.

* * *

Si potrebbe cominciare col dire: quello che era volontario si è fatto fisiologico, senza che la trasformazione sia stata mediata dalla memoria, da una qualsiasi continuità più o meno cosciente.

- 159 -


La storia si è fatta natura, seconda natura, - così come avviene sempre sulla trasformazione della composizione di classe. E’ una ipotesi: ma non spiega lo specifico del nostro problema, che è quello della mancanza di memoria, non quello della pura e semplice trasformazione. L’epistemologia borghese e quella socialista conoscono questo passaggio dalla storia alla natura, alla seconda natura della composizione di classe trasformata, e lo tematizzano attorno al concetto di organizzazione del lavoro e di trasformazione dei rapporti di produzione. La sequenza << lotta di classe / ristrutturazione capitalistica / nuova composizione proletaria / nuovo dominio >> rappresenta la più astuta descrizione del processo.

Ma in questo caso, nel caso di mancanza di memoria, non serve. Infatti, nel quadro dell’epistemologia borghese e socialista, la dialettica di spinte e controspinte, di lavoro e conoscenza, è indistricabile: una termodinamica di evoluzione, da stato di equilibrio a stato di equilibrio, è sottesa allo schema esplicativo. Dialettica / storicismo / metafisica. Se l’uno si divida in due o il due ritorni all’unità: da Platone a Ciu En Lai la possanza dell’argomentazione s’è riposata in questa miseria di alternative: in realtà, di equivalenze. La chiave dell’ambiguità è sempre nella memoria. La dialettica è memoria. Un filo nero di coscienza la percorre.

Affabulazione del passato, consolidamento discipline, lavoro, comando. Il tempo è azzerato dalla memoria così come dalla coscienza alienata. Il tempo è azzerato dal lavoro, - tempo misura di atti umani ridotti ad astrazione. Ma questo azzeramento è un’operazione reale e la memoria resta. Non è dunque il nostro caso.

Di contro, infatti, la composizione di classe del soggetto metropolitano contemporaneo non ha memoria perché non ha lavoro, perché non vuole lavoro comandato, lavoro dialettico. Non ha memoria perché solo il lavoro può costruire peril proletariato un rapporto con la storia passata. Non ha dialettica perché solo la memoria ed il lavoro costituiscono la dialettica.

Ma il non-lavoro è comunque un soggetto: tutti lo vedono. Privo di memoria e di dialettica. Ma un soggetto: tutti lo temono. Quindi un agente di conoscenza in quanto cumulo di sapere. Di quale sapere e di quale conoscenza?

- 160 -


* * *


Al termine dell’illuminismo e nel mezzo della trionfante rivoluzione capitalistica, Immanuel Kant si chiudeva quali fossero le condizioni di un conoscere che costituisse il nuovo mondo della libertà borghese. Concludeva la sua ricerca affermando che, sulla base della formativa della scienza e del lavoro capitalistici, si dovevano stendere schemi e progetti di ricostruzione del reale, di dominio sul proletariato come << cosa in sé >> inconoscibile, progetti giustificati non dalla certezza del risultato ma dalla necessità etica del conoscere e del lavoro. Al teorico borghese rivoluzionario il mondo si mostrava infatti come immediatamente scisso. Ma l’unità del mondo è l’ideale della ragione. Il conoscere ha una essenza unitaria, è dispositivo tecnico, è sapere che costruisce dominio ed esprime con ciò la natura del soggetto. Esso si dispiega nell’assalto all’oggetto, sfiorandolo prima, con continui tentativi di possederlo, organizzandolo poi entro reti di dominio produttivo. Per Kant libertà è produzione - quindi dominio dell’oggetto, della << cosa in sé >>.

Oggi questa rete della libertà è tutta distesa. Non abbiamo mai avuto tanta libertà, tanto dominio della libertà. Kant ha vinto: lo schematismo trascendentale della ragione si è fatto sussunzione reale del lavoro da parte del capitale. L’oggetto è stato posseduto, plasmato, trasfigurato. La cosa in sé tolta. Il sistema invece è posto. La norma è voluta. Lo stato delle cose presenti è la libertà. Il lavoro è la legge. L’apriori è il capitale, cioè il lavoro organizzato, sistematizzato, normativizzato. Il sapere è dunque conoscenza di questo rapporto di dominio, sua continua tessitura, memoria, iterazione, perfezionamento. Il conoscere e il ricordare sono funzioni di questo assoluto. Viva Kant, viva Hegel, viva Mao Tse Tung!

Ma, come dicevano i vecchi, antichissimi Horkheimer - Adorno, il trionfo dell’illuminismo e la sua crisi. Se gratti Kant, trovi Heidegger. Per parlare in soldoni: quando tutto il tempo della vita è tempo di lavoro, quale logica, quale conoscere distingue più il piacere della vita dal dominio del lavoro? Quando tutto il circuito della vita è chiuso in quello dello sfruttamento, trasposto nell’orizzonte del sistema, il mio rifiuto dello sfruttamento e del sistema sono un’altra vita.

- 161 -


* * *


La mancanza di memoria è per il proletariato metropolitano una potenza rivoluzionaria. Voglio spiegare il concetto di sussunzione reale. Parlare di proletariato metropolitano significa infatti fare un discorso insieme molto complesso e molto semplice. Il passaggio dal concetto generico di proletariato a quello specifico di proletariato metropolitano è un passaggio che prevede la determinazione reale della sussunzione del lavoro nel capitale. I processi della sussunzione si leggono nel Capitolo VI inedito del Capitale di Marx. Su questa base, io sottolineo il fatto che sussunzione reale significa l’estinzione della divisione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo [improdutivo] e integrazione dei circuiti della produzione e della riproduzione (circolazione) - in parallelo l’emergere del concetto di lavoro sociale produttivo e quindi la localizzazione metropolitana dell’operaio sociale.

La sussunzione reale determina un dislocamento qualitativo dell’essenza proletaria (della forma dello sfruttamento e della cooperazione, dei bisogni e dei desideri): nulla che abbia a vedere con il vecchio ritmo delle ricomposizioni e delle ristrutturazioni. Tanto è vero che in Marx il passaggio alla sussunzione reale del lavoro nel capitale è immediatamente il passaggio dal socialismo al comunismo. E’ un errore di Marx. Ma ci serve per chiarire il nostro punto di vista. Di fatto la sussunzione reale si verifica senza mettere in gioco la transizione. E’ un passaggio capitalistico.

Ma questo passaggio capitalistico è radicale. L’antagonismo che sorge all’interno della sussunzione reale è assolutamente radicale, anch’esso. Il problema della transizione non si pone in nome del passaggio capitalistico della sussunzione, ma si pone nel momento nel quale all’interno della sussunzione si chiarisce il nuovo antagonismo. Vale a dire che la sussunzione reale non elimina (come in Marx) l’antagonismo, ma lo disloca radicalmente (siamo nell’oltre Marx).

Ma cos’è allora l’antagonismo nella sussunzione reale? E’ l’emergere del proletariato come nuova essenza collettiva, separata, non dialettizzabile [dialetizzabile ?]. L’emergenza dell’antagonismo come istituzionalità.

-162-

* * *


Ben vengano le ricostruzioni (tipo rinvio a giudizio del 7 aprile) degli anni più belli della nostra vita: il loro distruggere la memoria ci fa gioco. Il loro falsificare il passato esalta il nuovo. La continuità soprattutto nelle sue figure terroristiche, è tutta loro. Giacobino di destra e giacobino di sinistra giacciono sotto la stessa coperta. Si coniugano. In questo mondo sussunto dal capitale l’unica memoria è quella del padrone.

Solo la negazione della memoria ci rende l’orizzonte della vita. La sussunzione reale del lavoro da parte del capitale distrugge ogni soggetto produttivo separato, assume la società intera nella produzione. Ma la sussunzione ha il suo antagonismo specifico: dove tutto il tempo della vita è tempo di produzione, l’antagonismo è determinato dalla diversa qualità della vita. Il tempo capitalistico misura e sfrutta la totalità sociale della produzione, - la vita quindi si oppone al tempo misura. Conquista una nuova qualità del tempo. Così procedendo, dunque, il capitale ci restituisce l’essenza collettiva del soggetto che si rifiuta allo sfruttamento, insistendo su una qualità della vita completamente separata e su un modello di vita alternativo.

La sussunzione capitalistica del lavoro ci rende la soggettività sociale e ce la rende nel senso di un completo dislocamento. Se v’è dislocamento non c’è memoria. Nel momento nel quale il capitale si sente tutto ed è tutto, l’antagonismo spiazza la sua propria collocazione. Gli schemi della memoria, e quindi la memoria del funzionamento della legge del valore (perché null’altro può essere la memoria proletaria), scompaiono nella catastrofe di una dislocazione radicale, nel buio di uno spazio interstellare. Il sapere proletario non comprende più la legge sul valore, neppure come sofferenza passata, come volgare coscienza del nesso servo-padrone. I miei figli non sono il mio passato. La dialettica si sfuma. La mancanza di dialettica, ha mancanza di memoria è ricchezza.

Alla caduta della memoria corrisponde l’apparire storico, la consistenza dell’istituzionalità proletaria. Non insistiamo tanto sulla separatezza: essa è indice e codice dello spessore materiale dell’istituzionalità proletaria, del suo processo evolutivo. Ma non la mistica della separatezza, bensì la logica dell’istituzionalità

- 163 -


segnala la mancanza di memoria. Mancanza di memoria è libertà: non solo da un passato, ma da un futuro che non sia autonomamente determinato. Transizione comunista è mancanza di memoria.

* * *


La teoria della conoscenza proletaria è la stessa cosa della sua istituzionalità, separata. Ma la separazione della memoria del rapporto dialettico e dello sfruttamento. Istituzionalità separata è pieno sviluppo del lavoro negativo, del lavoro che distrugge il criterio del profitto e pone quello della felicità. Conoscenza ed istituzionalità proletarie: posseggono un fondamento, un metodo, uno sviluppo.
Il fondamento è la vita, il suo rispetto, la sua felicità. Questa convenzione è fondamentale. E’ convenzione che esclude il principio hobbesiano del ricatto della paura a fondamento della convivenza umana e toglie quindi anche il principio della pace - quando la pace venga intesa come risultato del ricatto del più forte, come valore che sovradetermina quello della vita. (Stato e BR in perfetta sintonia). La struttura conoscitiva di questo principio è fenomenologica: essa insegue il rapporto bisogni, desideri, realtà. Sono i mille aspetti della vita che vengono positivamente proposti al desiderio collettivo. Ragione e paura non si pongono in nessun senso sullo stesso terreno. Divengono del tutto asimmetriche. Hobbes è un lurido reazionario. Spinoza è il piacere della vita, la sua materialità creativa sono il fondamento. E’ la paura, in quanto collegata alla ragione che pone il formalismo della ragione. La vita, il desiderio, in quanto incarnano la ragione, pongono il materialismo della conoscenza.

Il metodo e quello della molteplicità. Non v’è << norma >>, nella conoscenza della comunità proletaria, ma solo << patto >>, solo accordo e convenienza pratica. Non c’è obbligatorietà ma solo conversione collettiva sugli obiettivi della ragione. Tutta la scienza del capitale, tutta la scienza del tempio e della reggia, hanno sempre puntato sul concetto di potere e di norma, di potere come esercizio della normativa, come autoselezione di ceto dirigente. Tutto questo è finito.

La norma è solo spettro di un comando che vuol farsi reale incutendo

- 164 -


paura. Se la logica capitalistica è sempre un tentativo di dominare la << cosa in sé >>, unificandola nel sistema, la cosa è ora fuori dalla sua possibilità logica. Il metodo proletario è invece consustanziale [consostanziale?] il progetto di costituzione pattizia per la felicità. Non c’è dittatura se non in questo senso: nel senso di impedire ogni sopraffazione dell’unità sulla molteplicità, di affermare la continua catastrofe della norma a fronte delle procedure pattizie, di distruggere ogni sovradeterminazione fosse pure quella semplicemente formale del richiamo all’unità o addirittura il formale della crisi.

Infine lo sviluppo dell’istituzionalità proletaria. Essa si dà sull’intero arco della vita. Non esistono pubblico e privato, sociale e politico, - esiste solamente, come oggetto, l’estensione della giornata lavorativa sociale che va interamente liberata. La conoscenza qui diventa prefigurazione. La critica del progetto, di cui il riformismo oggi si nutre, è solo funzione interna al potere ed alla sua riproduzione, - analisi dei modi in cui si possono perfezionare le pratiche di delega e di rappresentanza, dunque nuovamente presunzione della volontà generale. Ma perciò stesso anche riconoscimento della sua ineffettualità. Il progetto del potere ha fallito. Proprio qui la prefigurazione proletaria incastra la sua libertà.

La vita e la felicità costituiscono fondamento, il materialismo della gestione dualistica del molteplice costituisce il metodo: bene, qui la struttura del sapere proletario si fa immediatamente pratica.

* * *


Possiamo rovesciare lo schema kantiano del conoscere. Il rovesciamento consiste in ciò: che il nuovo illuminismo proletario è istituzionale, non considera la realtà come oggetto di dominio, bensì come terreno di liberazione. Di kantiano resta l’istituzionalità indipendente dell’approccio conoscitivo della realtà. Ma il suo senso è appunto completamente rovesciato. Il proletario, la << cosa in sé >> sviluppata, dislocata, è il soggetto del conoscere. All’inverso il capitale è ora << cosa in sé >> irraggiungibile e lontana. Ah, ah, se lo tengano il loro bel capitale postmoderno! Tempo e spazio costituiscono per il proletariato, per il soggetto rivoluzionario

- 165 -


forme a priori che nulla hanno più a che fare con la istituzionalità capitalistica. Certo, la << cosa in sé >> capitalistica permane: permarrà per chissà quanto tempo ancora. Ma il limite non toglie l’egemonia del punto di vista proletario. In ogni caso, oggi non il dominio del capitale ma il lavoro negativo della liberazione costituisce l’ideale della ragione.

La mancanza di memoria è costitutiva di un nuovo orizzonte del sapere.


* * *


Vi è chi insiste sul fatto che bisognerebbe produrre una memoria interna al movimento, una memoria di questi ultimi anni. E’ ridicolo. Certo, potremmo ricorrere alle malizie rinascimentali dell’arte della memoria: con un po’ di kabbala questa storia può ben essere ricostruita. Ma perché togliere questi piaceri ai giudici della Repubblica che di kabbala se ne intendono? Una coscienza che, come quella proletaria, si vuole istituzionale non ha bisogno di una memoria che è solo memoria della propria estraneità, della propria passata estraneazione. Quello che l’istituzionalità proletaria deve ricordare lo trattiene come base della propria esistenza, lo ha come sostanza della sua pratica materiale. E’ iscritto nella sua esistenza. Non hanno bisogno di memoria i giovani di Zurigo, i proletari napoletani e gli operai di Danzica: hanno solo bisogno di quella speranza che costruiscono. Giustamente in Kant, su quello snodo di transizione della filosofia della rivoluzione borghese, non c’è una compiuta teoria della memoria. In Lenin e in tutta la fase socialista della rivoluzione proletaria la memoria è portata solo sulla sofferenza o sugli errori proletari, è arma - un po’ piagnona e sordida ma sempre un arma - e come tale la memoria è legittimata. Ma ora, nel mezzo della transizione comunista, a che diavolo serve la memoria? Non c’è spazio per essa. Come, e a rovescio che in Kant, la memoria è nella forma stessa a priori del conoscere proletario, nel meccanismo della sua espansione materiale. La memoria si legge solo nel futuro.

Di conseguenza: il processo 7 aprile non va impostato come rivendicazione di un passato, ma va concepito come presagio e dimostrazione di una nuova istituzionalità proletaria, nella sua

- 166 -


realtà. Al processo 7 aprile si va a considerare la chiusura di un’epoca e il dislocamento in avanti della lotta di liberazione. La memoria sarà solo forma della nostra - indipendente separata creativa - esistenza di comunità comunista. Nelle grandi dimensioni sociali della sussunzione reale e dell’antagonismo nuovo che l’attualità della storia di classe mostra.


* * *


E’ evidente che ci sono anche tanti altri orizzonti della memoria. E che alcuni vanno percorsi proprio per costruire l’istituzionalità proletaria. Qui il mio problema (qui e nel processo 7 aprile) è; solo quello di rovesciare in positivo quella spaventosa violenza che la memoria del potere produce per quello che riguarda il decennio che comincia con il ‘68, ovvero il decennio più bello della nostra vita. Se memoria diviene memoria del potere, memoria del funzionamento della legge del valore, memoria della sussunzione reale, di per ciò stesso la violenza annulla la nostra memoria. Questa violenza va comunque presa in positivo: rovesciata, assunta sul terreno dell’antagonismo, scarnificata, - se la memoria è la violenza, la nostra vita è la negazione della memoria: ma non basta! Poi ricominceremo a ricostruire gli orizzonti alternativi del ricordo. Per noi non c’è la possibilità di accostare senza violenza il passato: il nemico ce lo ha reso tale. Ma esiste, probabilmente, una memoria dell’altro soggetto. Di noi come soggetto.

E c’è da dire che la coincidenza della distruzione capitalistica della memoria con il risoluto ingresso del capitale nella fase della sussunzione reale, mette in sintonia - dal punto di vista proletario - e senza alcuno scandalo, la riscoperta dell’essenza collettiva, della prefigurazione necessaria, della possibilità di ricostruzione del mondo e, d’altro canto, la caduta di ogni residua illusione di continuità.

- 167 -


2. Nota introduttiva alla ristampa di << Classe operaia >>. La potenza sociale del lavoro.

Perché ristampare << Classe operaia >>? La decisione non è stata mia: alcuni compagni ritengono utile intraprendere questa iniziativa e mi chiedono [chiudono?] di fare una introduzione. Debbo comunque rispondere alla proposta, in maniera affermativa o negativa. Tanto vale dunque fare l’introduzione. Ma solo per argomentare: che cosa?

Il mio consenso o il mio dissenso. Sfoglio le pagine della rivista: mi ci ritrovo, il mio ricordo ci si ritrova. Quante riunioni, quante amicizie fatte e disfatte, quante giornate di tipografia (sí, perché eravamo io e Manfredo Massironi a impaginarla e a farla in tipografia per un paio d’anni). Quante emozioni. Dunque << Classe operaia >> va ripubblicata; per quale ragione? Perché è la dimostrazione di una nobile ascendenza delle posizioni politiche che gran parte del movimento svilupperà negli anni successivi? Perché è, con i << Quaderni Rossi >>, la solida pietra sulla quale una nuova corrente del pensiero politico italiano, marxista e proletaria, è venuta costruendosi? E non solo in Italia? Perché dunque ha una particolare importanza scientifica e le persone che hanno collaborato alla sua fattura, fanno - in una maniera o nell’altra - parte della storia del movimento proletario chez nous?

Non mi soddisfano queste ragioni. Che << Classe operaia >> sia un pezzo di storia, va bene: ma allora ne va verificata politicamente la sua attualità, o meno, direttamente, senza soffermarsi sul feticcio << rivista >> degli << anni Sessanta >>: feticcio favoloso quanto per certi versi fuorviante. Quanto all’importanza scientifica di << Classe operaia >> va notato che coloro che vi hanno collaborato sono andati avanti, su da quella esperienza: e hanno fatto i loro libri nei quali con maggiore ampiezza e con maggior rigore hanno sviluppato il loro pensiero politico. Studiamo dunque i loro libri, direttamente. E allora perché, di nuovo, ristampare << Classe operaia >>?

Debbo sinceramente riconoscere di non saper dare una risposta, dal punto di vista di uno degli autori di quell’impresa. Rivediamo allora la questione dal punto di vista dell’utenza. << Classe operaia >> va ristampata perché i militanti politici di oggi possano avere a disposizione un testo al quale confrontarsi e sul quale

- 168 -


misurarsi. Ma direi che questa ragione non giustifica affatto la ristampa. Infatti i militanti del proletariato, oggi, son persone fortemente diverse da quel ceto politico che allora esprimeva una rivista come << Classe operaia >>. Il discorso << operaista >>, in senso stretto, della rivista non corrisponde neppure lontanamente a quelle che oggi sono le concezioni della lotta di classe che il militante medio, autonomo, l’operaio sociale degli anni ‘70 e ‘80 posseggono: all’orizzonte che si sono costruiti con tante lotte e con una riflessione critica così profonda. Già negli anni scorsi, quando feci vedere a militanti tedeschi e americani, la mia collezione di << Classe operaia >> (oggi questa collezione, rubatami da qualche poliziotto, giace nella polvere di un archivio giudiziario), le reazioni erano già affascinate ma distaccate. Per i nuovi strati di militanti, << Classe operaia >> è in realtà una reliquia. Come tutte le reliquie può avere effetti di rassicurazione sulle anime belle, certo - e perché negare l’utilità della rassicurazione teorica, in tempi così atroci? Ma, dal punto di vista della lotta politica, questa rassicurazione rischia persino di essere mistificante. Dove sono più infatti le categoire stesse sulle quali il lavoro di << Classe operaia >> si fondava? Dove i rapporti, ambigui e sotterranei, con il movimento operaio ufficiale che << Classe operaia >> comunque supponeva? Qual’è più oggi il modo di leggere le ambiguità delle quali << Classe operaia >> ridondava? Quel bell’operaio massa, che a tutto tondo veniva fuori dalle pagine della rivista, era indubbiamente allora, nel panorama della pubblicistica della sinistra rivoluzionaria, una figura nuova: ma oggi dov’è più. Oggi l’attenzione critica e trasformatrice si basa su ben altri, corposi e nuovi soggetti: anche noi, uomini e proletari di oggi, abbiamo il nostro carico di ambiguità nei confronti del nuovo soggetto, ma sono ambiguità esse stesse non riferibili a quella realtà degli anni Sessanta. Non c’è omologia possibile fra << quella >> figura dell’operaio massa e l’attuale vivacità del soggetto sociale proletario.
A guardar bene, poi, quella figura a tutto tondo dell’operaio massa che emergeva dalle pagine di << Classe operaia >> era già una figura vecchia. Noi, di << Classe operaia >>, eravamo un po’ delle nottole di Minerva che apparivano all’imbrunire: scoprivamo la novità della figura dell’operaio massa quando questa figura si era già storicamente consolidata (da almeno trent’anni), era già del tutto matura, era - e questo è quello che più conta - già in corso

- 169 -


di superamento. In realtà non scoprivamo una categoria della lotta di classe ma solo denunciavamo il ritardo storico del movimento operaio ufficiale nell’identificare una strategia fondata sulla centralità dell’operaio massa. Di qui una serie ulteriore di ambiguità: quest’operaio massa che venivamo tirando fuori dai dimenticatoi del movimento operaio ufficiale, quest’operaio massa che intagliavamo come figura distinta dall’operaio professionale, in realtà poi lo dipingevamo con vecchi colori. Il nostro operaio massa puzzava di officina Putilov in maniera indecente. Non che nel discorso di << Classe operaia >> non esistessero momenti di superamento di questa ambiguità, non sto dicendo questo.

Risulterebbe comunque molto difficile oggi riconoscere se era più forte l’ambiguità o il suo superamento. Solo il dopo, solo la vicenda storica che comincia appunto quando l’esperienza di << Classe operaia >> termina, solo questo può dare una risposta.

Ma sicuramente in << Classe operaia >> manca un gusto per lo stato nascente della soggettività proletaria. C’è il gusto teorico della analisi soggettiva proletaria. C’è il gusto teorico della analisi oggettiva, della identificazione della crisi: l’operaio massa che forza, colto nella sua piena maturità, lo sviluppo capitalistico fino a rovinarne proporzioni e compatibilità. Ma quello che manca è il senso delle relazioni complesse che costruiscono, nella crisi, nuova energia soggettiva, nuovi bisogni, nuovi comportamenti. Certo, la form a della lotta a << gatto selvaggio >> è colta ed esaltata: ma riportata a che cosa? Era progettata sul vuoto, non innestata dentro un meccanismo costitutivo di soggettività nuova. I discorsi sull’organizzazione furono, in << Classe operaia >>, prima fumosi, poi unilateralmente rivolti a riscoprire una chiave dialettica nei confronti del movimento operaio ufficiale. Quando, fra il ‘66 e il ‘67, << Classe operaia >> chiude definitivamente i battenti, essa aveva sicuramente previsto l’addensarsi della crisi nell’immediata fase successiva. Ma la forma della soggettività della crisi, la rivolta degli studenti, l’impatto del terzomondismo, l’apparizione della povertà proletaria, l’emarginazione, insomma tutte le componenti dell’operaio sociale, tutto questo le sfuggiva, veniva meccanicamente ed immediatamente ricondotto alla guida dell’operaio massa. E ciò proprio nel momento in cui tutto si stava rovesciando: era infatti la soggettività sociale del proletariato

- 170 -


che conquistava la centralità politica del processo, ed aggrediva la fabbrica stessa ed il lavoro produttivo, prima dall’esterno, poi dall’interno modificando la natura stessa del lavoro produttivo ed imponendo, nella fabbrica capitalistica, dentro di essa, l’egemonia dei comportamenti nuovi dell’operaio sociale. << Classe operaia >> aveva registrato la maturità della figura dell’operaio massa, non ne aveva inteso la vera natura però: l’operaio massa non era altro che un termine del passaggio all’operaio sociale, un primo prodotto della dissoluzione capitalistica del mercato del lavoro e un primo agente della trasformazione dell’interesse operaio e del suo trasferirsi dal terreno della produzione a quello della riproduzione. Molti di noi, d’istinto però e non tanto dal punto di vista di una riflessione matura, intendemmo questo: molti anni ancora erano tuttavia necessari perché l’intuizione raggiungesse un’adeguata figura teorica.

Proprio la forza dell’esperienza teorica di << Classe operaia >>, direi la consistenza soggettiva ed intellettuale dei collaboratori della rivista, costituì un freno, pesantissimo, allo sviluppo dei germi di analisi nuova che andavano al di là dell’esaltazione (storicamente postuma) dell’operaio massa. << Classe operaia >> è da questo punto di vista un’operazione coscientemente, consapevolmente incompiuta. Volutamente incompiuta, in se: assomiglia all’Ulisse.

Ma appunto come l’Ulisse rischia di castrare, per il paradosso della sua interna compiutezza, ogni ulteriore tentativo dell’avanguardia letteraria, così << Classe operaia >> blocca lo sviluppo dei temi nuovi che pure comprende. Quali sono questi nuovi temi? Sono essenzialmente quelli che vengono fuori dalla fenomenologia delle lotte, sono quelli che fissano i meccanismi del << superamento >> dell’operaio massa, che determinano l’oscillazione delle dinamiche di lotta fuori dal tessuto dello scontro sul salario e cominciano a considerare il rapporto fra produzione e riproduzione. Sono in secondo luogo quei motivi che vengono fuori dalla paradossale inversione della parola d’ordine operaista. << Operai senza alleati >>: vale a dire che se la fabbrica sociale esiste, in essa non si dà semplice estensione. Il comportamento dell’operaio della singola fabbrica bensì si dà una nuova figura sociale, un salto dalla quantità alla qualità. Nei comportamenti sovversivi che sono quelli che vengono fuori dall’approfondimento

- 171 -


implacabile della critica del lavoro capitalistico, dall’enfasi sul tema del << rifiuto del lavoro >>: tema, questo, che non può essere limitato alla casistica sociologica della analisi dei comportamenti, di fabbrica e sociali, ma deve svolgersi in progettazione alternativa della produzione, deve incarnarsi nella tematica della transizione comunista, deve immediatamente trovare un rapporto con lo sviluppo di comportamenti di massa autovalorizzati. Certo, a volerle leggere oggi, queste cose sono tutte in << Classe operaia >>, in seme, con aurorale potenza: ma non è un caso che non emergano [emergono?], che non diventino [diventano?] da subito elementi fondamentali. E’ l’organizzazione complessiva del discorso del giornale che lo vieta, è il suo storico ritardo sulla complessità dei movimenti che registra e che << Classe operaia >> in effetti riconduce alla sola critica dell’operaio professionale, all’identificazione dell’inadeguatezza del sindacato professionale nei confronti dell’operaio massa. Qui il nuovo si autolimita. La ricerca si sbarazza solo a metà dell’ideologia. Di qui l’impotenza pratica. Perché l’intervento, che pure - come già nei << Quaderni Rossi >> - il corpo redazionale della rivista svolge, attorno alle fabbriche, non riesce a trovare una continuità organizzativa. Non riesce a trovare continuità organizzativa perché l’intervento è puramente definito su scadenze oggettive e non sulla continuità di processi soggettivi. Si stabiliscono scadenze di fabbrica, scadenze di settore, scadenze politiche generali: lo scheletro delle interdipendenze dell’economia dello sfruttamento è evidentemente chiarissimo a << Classe operaia >>, meno evidenti sono i passaggi soggettivi, di organizzazione, il peso dell’intervento come iniziativa continuata, come progetto sul quale non si scarica solo l’intelligenza strategica ma soprattutto la tattica, la partecipazione, la microiniziativa quotidiana. Come le pagine di << Classe operaia >> documentano (cfr. in particolare le pagine di documentazione del n.3 del 1965) l’intervento è molto ampio: ma non residua un solo livello organizzativo (salvo alcune eccezioni). L’operaismo si collega ad un atteggiamento illuministico che non ha in realtà alcuna speranza di mordere il reale. Dentro queste difficoltà la polemica della rivista, e quella condotta nel corso dell’intervento, si limitano sempre di più alle sole tematiche sindacali. Con comportamento classico della vecchia sinistra terzinternazionalista, l’attacco al sindacato è accompagnato dalla mano tesa nei confronti del partito. E questo proprio

- 172 -


quando il fondamentale punto di partenza, sia nei << Quaderni Rossi >> che nella nuova rivista, era stato il riconoscimento dell’identità del contenuto dell’azione sindacale e dell’azione politica nella società fabbrica della pianificazione capitalistica. Le contraddizioni presto si ritrovano tra i compagni stessi promotori dell’iniziativa non era infatti possibile diluire la radicalità del progetto senza determinare delle conseguenze pratiche che sarebbero immediatamente ricomparse sul livello teorico. L’impotenza pratica diviene ragione sufficiente di scissioni teoriche.

Alla fine del ‘64, un anno appena dal suo inizio, la rivista è in crisi. Le ambiguità si accumulano soprattutto sul passaggio << intervento - sviluppo generale del discorso politico - sue varianti tattiche >> per la mancanza di una teoria dell’organizzazione qualsiasi. Nel 1965, anno secondo della rivista, la polemica si apre ferocemente nel la redazione. Non sono tanto gli insuccessi pratici dell’intervento a determinarla quanto la riflessione sempre più pesante, che solo una teoria dell’organizzazione poteva permettere di andare avanti. Ma non solo una teoria dell’organizzazione non c’è: non la si vuole. Una parte consistente della redazione comincia infatti a considerare l’intervento operaio e politico come un puro e semplice strumento di pressione sui livello politico: sul PCI.

Si teorizza l’ << entrismo di tipo nuovo >>. Non più quell’entrismo miserabile che è tradizione dei gruppi minoritari della III Internazionale, non più la critica e la pressione politica che si sviluppano sugli snodi dell’organizzazione formale del partito: una pressione ed una critica che si vogliono di massa, invece, nella convinzione che il partito, il partito comunista italiano nella fattispecie, sarà costretto a recepire questa critica e a modificare la sua politica di conseguenza. Il giudizio portato sul sindacato è drastico: nulla può venire dal sindacato, esso è, rimane, ed è bene che rimanga, una pura cinghia di trasmissione del partito. L’intero sforzo del nuovo entrismo va dunque rovesciato sulla lotta politica di partito. Questo è dunque quello che sostiene una parte della redazione della rivista. Sulla base di questo progetto essa si espone sempre più coerentemente in un lavoro di trattativa e di infiltrazione nel sindacato e soprattutto nel partito. Un giudizio molto ottimistico sulla base operaia del PCI tende ad elidere ogni considerazione circa il funzionamento del centralismo democratico

- 173 -


rozzamente si considera il rapporto di forza all’interno del partito come omologabile al rapporto di lotta di classe! Lo spessore dell’ideologia di partito, la forza materiale della centralizzazione burocratica, la violenza distruttiva dell’ideologia del lavoro vengono permanentemente sottovalutate. L’entrismo di massa, dentro questo gioco che tende a divenire sempre più e solamente intellettuale, si trasforma presto in entrismo individuale di vecchio tipo. Alla fine del 1965, dopo che la crisi interna alla rivista aveva già durante l’anno bloccato il suo lavoro, la scissione della redazione è praticamente data. I numeri del ‘66 sono già interni all’operazione entrista ed impegnano solo una parte di compagni.

Di contro all’entrismo ed alla sua storia, dentro al gruppo redazionale di << Classe operaia >> se ne apre tuttavia un’altra. E’ la storia dell’operaismo militante, della lotta contro il revisionismo della lunga marcia per l’organizzazione dell’autonomia operaia e proletaria. Questa storia è ormai molto nota e non val forse la pena di sottolinearla, di tornarci ancora sopra, qui. Chi sostiene questo indirizzo sono i compagni direttamente impegnati nel lavoro politico e di agitazione attorno alle grandi fabbriche del Nord. La geografia operaia degli anni ‘68/69 si stabilisce a questo punto. Fiat, Pirelli, Alfa, Porto Marghera: questo adagio di milioni di volantini comincia a costituire l’ipostruttura della coscienza del militante. Ora, già durante l’ultimo anno di redazione di << Classe operaia >>, la vicenda di questi compagni si autonomizza. Formidabili quadri operai prendono la direzione del movimento di contestazione già a partire dal ‘6 5/66.

Ogni compromesso diviene quindi impossibile. Ma non è appunto questa storia che va qui rinarrata. Si deve piuttosto insistere su un fatto, negativo e residuo, che anche l’esperienza ed il discorso di questi compagni contengono. Ed è l’incapacità di proporre, per un lungo tempo, di nuovo trovandosi prigionieri delle ambiguità essenziali del discorso teorico di << Classe operaia >>, una tematica dell’organizzazione. Le caratteristiche del gruppo di compagni redattori di << Classe operaia >> che rifiutarono l’opzione entrista (entrismo di vecchio e di nuovo tipo), sono tali che, mentre da un lato l’enfasi sulla forza teorica della prassi è massima, dall’altro la riflessione specifica in proposito è minima. Certo, si punta tutto sull’organizzazione di base ma senza intendere la complessità dei rapporti dialettici che a questa si presentavano.

- 174 -


L’organizzazione di base poteva costituire la rifondazione del movimento comunista solo nella misura in cui fosse in grado di dominare la complessità dei rapporti che si stendevano dinanzi. Dentro la lotta continua, dentro la mancanza o la carenza di un’iniziativa adeguata di ristrutturazione del dominio da parte dell’avversario di classe, era possibile immaginare un meccanismo organizzativo che sviluppasse potenzialità complessive, nel senso appunto della continuità.

Ma la lotta di classe non è un continuo. La sua discontinuità poneva inevitabilmente il problema della centralizzazione, della direzione. Questi problemi vengono posti, ma con estrema prudenza solo con il ‘68 entreranno al centro della tematica di massa Ma troppo tardi. E d’altra parte, nel ‘68, paradossalmente (anche) troppo presto: perché infatti, con la ristrutturazione, con la formidabile lotta di resistenza che si apre nei primi anni ‘70, con il trasformarsi della figura operaia egemone, lo stesso problema dell’organizzazione comincia a porsi in maniera diversa, - comincia cioè a porsi come problema di una massiccia e compatta forza operaia che sviluppa la sua autonomia mediando al suo interno azione di avanguardia e azione di massa in termini del tutto nuovi ed originali, in termini di autovalorizzazione. Torniamo a noi, torniamo a quegli anni ‘65/67, anni immediatamente precedenti il più grande sommovimento di classe che mai le nostre generazioni abbiano conosciuto Bene, eravamo allora completamente coinvolti in una problematica insolubile: da un lato ci indicavano come via d’uscita realistica quella dell’opportunismo, dell’entrismo, della ripresa di contatto con il movimento operaio ufficiale; ci chiedevano insomma la dichiarazione dell’impossibilità di ogni alternativa organizzativa per la classe operaia e proletaria. D’altro lato c’era il rifiuto di tutto questo ma anche l’impossibilità di dare una risposta che coprisse i problemi reali che avevamo davanti. Si scelse l’attesa attiva ed operante, si scelse il contatto di classe, la vita interna del movimento, - nel ‘65/66/67 nulla sembrava mutato rispetto alla grande crisi del movimento operaio che ci perseguitava dal 1956/58, nulla << sembrava >> essersi modificato. E invece, l’attesa, quali che fossero i suoi limiti attuali, quali (e certamente ingiustificabili) che fossero i limiti di discorso e di approfondimento che comportava, pure si rivelò non utile ma eccezionalmente feconda.

- 175 -


D’altra parte, perché farsi prendere dall’impazienza proprio allora, attorno alla fine del 1965? Un decennio era appena trascorso da quando la << grande crisi >> s’era aperta nel movimento comunista. 1956/1958: attorno alla crisi ungherese, attorno alla prima rivolta operaia contro il regime del socialismo realizzato. Nel 1953 erano stati gli edili di Berlino a muoversi ma l’odio antitedesco non aveva permesso di cogliere la pesantezza della cosa. Nel ‘56 non c’erano invece possibilità di confondersi.

In Ungheria la classe operaia in armi non contestava altro che il tradimento e la propria miseria. In Italia siamo al centro della crisi del movimento nella sua forma postresistenziale. Dalla sconfitta del 1953 (alla Fiat) al ‘56 il movimento aveva faticosamente tentato di riprendere una figura politica: la lotta operaia ungherese ci ridà fiato e speranza. Esiste ancora un comunismo per il quale lottare. La formazione dei << Quaderni Rossi >>, alla fine degli anni ‘50, è il primo coagulo di una speranza comunista che comincia a rivivere, articolandosi con nuove tecniche di ricerca e nuove prospettive di critica radicale. Tutto doveva muoversi: tutto si muove. Genova: 1960. Piazza Statuto: 1962. Il movimento operaio ufficiale e il ceto capitalistico stesso corrono ai ripari: ormai il movimento si è dato gambe per muoversi, occorre quindi stabilire nuovi schemi, nuove linee dentro le quali inglobarlo.

I primi tentativi di riammodernamento capitalistico e riformistico sono però fin dall’inizio inseguiti da una coscienza critica, articolata alle lotte, che costituirà nei successivi decenni la grande dignità del movimento operaio rivoluzionario in Italia.

Gli anni ‘60 sono un grande laboratorio nel quale la sintesi di un nuovo ceto politico rivoluzionario e del movimento reale della lotta operaia cominciano a funzionare assieme. La << grande crisi >> comincia a dare i suoi frutti. Certo, malgrado molte faticose iniziative, malgrado l’altissimo livello del dibattito, il movimento operaio tradizionale resta impermeabile. Vi sono piccoli momenti di crisi, deviazioni, ma la centralità burocratica resiste impavida. Eppure lo sconvolgimento è fondamentale e marcia anche quando non lo si vuol vedere. Personalmente odio tutte le concezioni teoriche che vedono la rivoluzione uscire matura dal cervello di Giove, e cioè dalla casalità [causalità?]. Che la rivoluzione sia un’arte non significa che sia irrazionale, che il suo ritmo sia discontinuo non significa

- 176 -


che la sua formazione non abbia le caratteristiche di continuità di tutti i processi materiali. La crisi della fine degli anni ‘60 risponde alla crisi politica del ‘56/58: chi l’aveva subita, i vecchi militanti comunisti, gli intellettuali del dissenso ungherese ne sono probabilmente fuori, spiazzati; la dirigenza del movimento operaio tradizionale sembra presentarsi compatta. Ma che cosa è avvenuto di nuovo?

E’ avvenuto che è stato distrutto il patrimonio ideologico del movimento operaio tradizionale, che il rapporto con la lotta è inventato daccapo, che nuove generazioni si presentano alla lotta non preventivamente mistificate da un’educazione politica arcaica. I << Quaderni Rossi >> sono il frutto rivoluzionario della crisi politica del ‘56/58. Inventano un nuovo metodo di approccio alla realtà delle lotte. Un metodo insufficiente? Certo. Ma è un terreno sul quale la pratica rivoluzionaria diventa possibile, sul quale l’invenzione politica, la fantasia divengono obbligatori. I limiti di quest’approccio sono immediatamente visibili. Opportunismo nei confronti dell’azione sindacale, oggettivismo ed economicismo estremi, confusione sui fini della lotta rivoluzionaria, socialismo latente. Ma la modificazione avviene nella pratica: << Quaderni Rossi >> portano la rottura - effettuata, stabilizzata - con la linea del movimento operaio ufficiale nell’educazione politica delle nuove generazioni. Le << magliette a striscie >> del ‘60, i nuovi emigrati cominciano ad avere un cervello.

I limiti di quel movimento non erano superabili all’interno del discorso di << Classe operaia >>. Si sono fatte infinite esercitazioni letterarie per andare ad identificare le distinzioni, le differenze, le contraddizioni fra il movimento dei << Quaderni Rossi >> e quello di << Classe operaia >>: esercitazioni letterarie, appunto! Tutto si riduce ad alcune incompatibilità e, soprattutto, ad un meccanismo di selezione di gruppo dirigente. Con << Classe operaia >> i << Quaderni Rossi >> continuano: continuano sulla strada della radicalità, ma continuano anche sulla via del limiti e delle passività che a qualsiasi attività minoritaria non potevano che derivare dal movimento reale. Continuano girando attorno al problema che era stato, per così dire, solamente annusato: quello dell’impatto sociale dell’operaio massa, quello della socializzazione della sua figura e della sua lotta. Il paradosso ed il blocco del discorso sono lì , tutti lì: ed oggi, guardandoli a distanza, sembra quasi impossibile

- 177 -


che si siano dati in quella forma. Ora, da un lato la critica dell’economia politica conduceva alla definizione della società fabbrica; dall’altro l’attenzione politica si confinava su una retorica dell’operaio di fabbrica che, prima di tutto, a questo faceva torto. Da un lato la potenza dello sviluppo capitalistico mostrava la sua forza di espansione mondiale; dall’altro la fantasia politica non sapeva vedere il cumularsi delle lotte dell’operaio metropolitano e del proletariato del << terzo mondo >>. L’identificazione teorica della centralità della fabbrica si rovesciava in una concezione del lavoro produttivo (del lavoro sfruttato per il plusvalore) che quasi riconquistava toni populistici di esaltazione del lavoro manuale. In << Classe operaia >> la retorica operaista diviene sempre più forte quanto più diminuisce la capacità di progettazione del gruppo. Su queste incredibili contraddizioni il dibattito ristagna. Eppure bastava andare avanti insistendo sulle premesse, scavandone il presupposto. << Classe operaia >> non ci riesce. Ci riescono tuttavia i compagni del movimento. Il << buon senso >> proletario non s’arresta ai sofismi della teoria. Quando il movimento scoppia e si diffonde in forma massificata tutti questi problemi vengono fusi nell’iniziativa unitaria. La verginità del credo operaista è subito fottuta. << Classe operaia >> giustamente archiviata. I suoi incredibili limiti non potevano essere superati che da un movimento di massa che dislocasse praticamente il quadro del discorso cui eravamo stati condannati dalle caratteristiche della crisi degli anni ‘50: di quella crisi di cui eravamo figli. Ma ora il quadro muta. Ora, con il ‘68, una formidabile possibilità di espansione teorica e pratica si dà: prima pratica, poi teorica. Ma dalla pratica è necessario ricavare il massimo: malgrado gli errori precedenti, malgrado tutti i limiti, la maggior parte di noi riesce a ricollegarsi a questa realtà.

Ricollegarsi alla realtà attraverso la pratica significa essere presto in grado di rinnovare anche il livello della teoria. Abbiamo già segnalato alcuni paradossi di cui il discorso di << Classe operaia >> era ricco. Fondamentale è ovviamente quello che si distente fra concezione della società-fabbrica, dell’espansione ristrutturante dell’iniziativa capitalistica (da un lato) e (dall’altro) la definizione della composizione di classe. Abbiamo già sottolineato come la seconda fosse, inspiegabilmente, arretrata rispetto alla

- 178 -


prima: l’unica giustificazione c’è sembrato poterla ritrovare nel fatto che i problemi di << Classe operaia >> non era no in realtà ancora stati dislocati rispetto alla tematica della crisi del movimento degli anni ‘50. Vi sono però degli elementi nel discorso della rivista che possono, più di altri, sostenere il passaggio al superamento delle contraddizioni. Quando il ricollegamento alla pratica, quando il salto che la lotta impone, sono dati, allora questi elementi più di altri contribuiscono allo sviluppo della teoria, - e nella fattispecie allo sviluppo della teoria della composizione di classe. Ora, tutti questi elementi progressivi ed espansivi si collegano proprio al concetto della << centralità operaia >>. Perché questo concetto non è inteso in maniera empirica e burocratica (così come ricorre spesso, a tutt’oggi, nel dibattito) ma in maniera scientifica: vale a dire che la concezione del lavoro produttivo operaio era data, in << Classe operaia >>, come idea di un’attività soggettiva, come una realtà insieme intensiva ed espansiva. Intensiva perché appunto il lavoro è la base di tutto il valore possibile ed immaginabile, estensiva perché questa concezione del lavoro riconquistava la continuità del ciclo espansivo sociale della riproduzione operaia e proletaria. La pregnanza del concetto di salario nella tematica di << Classe operaia >> non consiste solamente nell’insistenza della sua variabilità indipendente a fronte della rigidità del comando pianificato, ma anche nella sua potenza collettiva su tutte le articolazioni dell’organizzazione pianificata della società. << Centralità operaia >> eguale << potenza sociale del lavoro produttivo >>, eguale << espansività della soggettività operaia >>. E’ ben vero, dunque, che questi elementi restano a lungo nascosti, nella loro potenza, all’interno di un décalage storico e teorico: ma non appena i comportamenti operai riprendono il luogo che debbono avere nella teoria, non appena la lotta operaia riprende per mano e guida il pensiero rivoluzionario, di nuovo, direttamente, questi elementi subito trovano modo di rappresentarsi teoricamente in tutta chiarezza. La forbice che, in << Classe operaia >>, si dava fra concezione oggettivistica della società-fabbrica e soggettività mal sviluppata della composizione si chiude: la soggettività operaia si eleva al livello, e ben oltre, la capacità capitalistica di controllo sociale. Di conseguenza un altro elemento confuso ma fecondo della problematica di << Classe operaia >> viene, per così dire, alla luce: si libera cioè delle ambiguità che lo contraddistinguono.

- 179 -


Ed è la concezione dinamica del rapporto di capitale. Si era detto che lo sviluppo capitalistico era frutto delle lotte operaie: questa affermazione era rimasta a lungo incapace di produrre teoria, poteva di contro indurre effetti estatici o addirittura mitologie tecnocratiche. Bene, dentro la pratica delle lotte e non appena la pratica rivela la soggettività di classe operaia ed il suo grado di espansione sociale, allora si intende che non solo lo sviluppo ma soprattutto la crisi dello sviluppo, e a pari titolo, è frutto della lotta operaia. Di fatto il rapporto di capitale doveva man mano dimettere la sua forma dialettica, per assumere figura antagonistica, solo ed interamente antagonistica, fra due opposte polarità soggettive: classe e capitale. E qui s’intende infine che solo uno sviluppo tematico di questo genere, così imposto dalle lotte, poteva spazzar via l’illusione di riproporre il problema dell’organizzazione operaia nei termini nei quali l’avevamo ereditato dalla tradizione terzinternazionalista e dalla crisi stessa degli anni ‘50. Ma con questi problemi siamo ormai ai nostri giorni, al tessuto della riflessione quotidiana del movimento: le contraddizioni di un vecchio dibattito non risuonano più con intensità.

Vale allora la pena di ristampare << Classe operaia >>? Chiediamocelo infine di nuovo. Mi sono riletto quanto ho scritto fin qui e, forse con contraddizione (ma certo perdonabile), mi sembra di poter dire: sí pubblichiamola. Ma se lo facciamo, avvertiamo tutti di leggere quell’antica rivista dall’altezza dell’esperienza fin qui fatta, a partire dagli anni `68-`69 fino a tutte le lotte degli anni `70. Avvertiamo i compagni che solo in questa prospettiva << Classe operaia >> ridiventa un testo importante da leggere: poiché costituisce una pietra di quell’edificio dell’organizzazione autonoma del proletariato che stiamo costruendo. Ma una pietra sola, ed essa stessa, per essere utilizzata nella continuità della nostra esperienza di lotta, ha dovuto essere tolta dalla vecchia calce che l’imbrattava, ripulita, scalpellata, ed infine ricollocata nelle fondamenta dell’edificio, con un nuovo cemento.

- 180 -


3. Per un nuovo schematismo della ragione. Risposta a Petitot.


Per chi abbia subito il dibattito sul pensiero di Thom da una situazione marginale come è stata, a questo proposito e in questi anni, quella italiana, la lettera del saggio di Jean Petitot << à propos de Logos et théorie des catastrophes >> (apparso nel numero 2/3 di Babylone) è tonificante. E lo è soprattutto nella sua impostazione, laddove, a fronte del senso della Krisis che percorre la filosofia contemporanea (ed istericamente totalizza quella italiana), viene immediatamente rivendicata la funzione costitutiva del nesso epistemologia-ontologia. Il senso forte del paradigma teorico innovativo << alla Kuhn >> è qui richiamato: la riflessione sul pensiero di Thom, infatti, lungi dall’esaltare funzioni unilaterali e tecniche di un’epistemologia strumentale, apre spazi e può permettere di muoversi sul terreno della costituzione, ontologicamente determinante, di << regioni del senso >> - obiettivi, semiotiche, comunicative. Questo è quello che inizialmente ci dice Petitot. E’ il processo razionale dell’obiettivazione che è qui possibile riconquistare alla filosofia, dopo la lunga fase di predominio del pensiero della Krisis ed è di là dell’angosciosa fatica della sua verificazione. E’ una nuova << estetica trascendentale della ragione >> ad essere qui possibile, - sostiene Petitot, - una estetica trascendentale modificata e completata, sulla quale direttamente si fondino le determinazioni oggettive e costitutive dello schematismo, giovandosi dello sviluppo delle matematiche e dell’epistemologia, ben oltre il livello della loro elaborazione in periodo kantiano. Il razionalismo classico, di cui Kant è l’ultima espressione e del quale le filosofie della Krisis sperimentano l’estinzione, basato com’era sulla disgiunzione fra l’essere fisico e razionale e, d’altro canto e di contro, l’apparire fenomenico, - viene dunque superato dall’impostazione di Thom, il cui fondamentale merito consiste nell’integrazione del fenomeni critici nella descrizione razionale, nella riconciliazione dell’essere fisico e dell’apparire morfologico.

Petitot cerca di dimostrare il suo assunto attraverso un discorso che con molta efficacia intercala considerazioni di metodologia scientifica e suggestioni storico-filosofiche.

Per quanto riguarda le seconde, egli traccia un cammino denso


- 181 -


di referenze. Rivedendo inizialmente la problematica kantiana dello schematismo trascendentale della ragione, così come essa è stata sviluppata e condotta a crisi nell’elaborazione husserliana, egli nota come Husserl abbia correttamente inteso l’irresolubilità del problema posto in quelle forme da Kant. Il passaggio kantiano dall’estetica all’analitica allo schematismo disgiunge in maniera definitiva i giudizi determinanti (a portata ontologica) da quelli riflettenti (a portata ipotetico-metafisica). Su questo passaggio il criticismo non riesce a concludere il suo progetto, anzi esso ci lascia un mondo scisso, ontologicamente irraggiungibile Ma la correttezza della comprensione del fallimento kantiano nella soluzione del problema della conoscenza, non porta Husserl ad una corretta soluzione del medesimo problema, aggiunge Petitot. Anzi, la ricerca dell’obiettività viene a questo punto, in Husserl, affidata non più all’intuizione pura bensì all’intenzionalità, non all’approfondimento dell’estetica bensì allo sviluppo dell’analitica. L’assiomatica intuitiva della scienza è dispersa nel formalismo fenomenologico della coscienza e mistificata nella trascendenza dell’intenzionalità. Su questo terreno, quando la temporalità originaria della coscienza si oppone alla teoria nazionale dell’obiettività, Heidegger potrà trarre da Husserl conseguenze estreme e legittimare la condizione di Krisis del pensiero europeo. Certo, Kant ha reso possibile questa conseguenza del suo pensiero: ma anche altre, sostiene Petitot. Ora, ci si deve chiedere: contro Husserl e Heidegger, non è possibile identificare, fra le possibilità della ragion pura, una diversa via di sviluppo della teoria della conoscenza, fra estetica e schematismo trascendentale?

Le matematiche moderne, incalza Petitot, possono offrirsi [offrirci ?] questa nuova via di soluzione per il problema lasciato irrisolto fra Kant e Husserl. Secondo Petitot, sulla base dell’insegnamento di Thom, la scissione insuperabile fra schematismo e costruzione, fra categorie ed intuizioni pure, fra esposizione metafisica ed esposizione trascendentale dell’estetica, può essere sciolta. Caratteristica fondamentale delle matematiche moderne è infatti quella di elaborare concetti matematici strutturali a contenuto categoriale, - certo, non << immediatamente >> ritrovati nell’intuizione pura ma << mediatamente >> costruiti nella geometria della spazio-tempo. Nello sviluppo delle matematiche, nella loro storia concreta, i concetti e i giudizi riflettenti possono man mano divenire

- 182 -


concetti e giudizi determinanti, essere cioè portati ad intensità ontologica. Riferendosi al lavoro di Lautman, Petitot giunge a questa formulazione: << la dialectique du concept immanente à l’histoire des théories mathématiques et à leur mouvement vers l’unité doit être conçue, en rapport avec l’éxpérience possible. Comme le principe d’un schématisme généralisé susceptible de constituer les ontologies régionales d’objectivités alternatives >>.

Dire questo è come dire che finalmente la scienza matematica ci permette di cogliere gli << stati reali delle cose >>, di penetrare ed affermare la loro oggettività razionale; è come dire che sulla base della scienza contemporanea << giudizi analitici a posteriori >> sono formulabili. Si compie in questo modo la vendetta dell’estetica sull’analitica - quando cioè lo schematismo trascendentale della ragione risulta essere prolungamento e verificazione della prima e non - come in tutto il neokantismo - fondamento del formalismo delle ipotesi analitiche. Un anti-neokantismo radicale vorrebbe dunque essere qui fondato attraverso il combinato disposto dell’analisi della Krisis del pensiero filosofico (bloccato sulla denuncia e sull’impossibilità di superare le perduranze del razionalismo classico) e della nuova costruttività del pensiero matematico contemporaneo.

* * *


Non posso non essere d’accordo con questo sviluppo e con questo progetto contenuti nel saggio di Petitot. Con due riserve, su motivi espressi dall’autore, che mi sembrano minare l’efficacia della sua proposta e rappresentare degli ostacoli che vanno in ogni modo evitati, affinché la proposta non rovini su se stessa. Il primo di questi ostacoli mi sembra consistere nella ripetuta dichiarazione di fedeltà all’impostazione strutturalista, il secondo ostacolo mi sembra consistere nella troppo riduzionistica concezione della Umwelt fenomenologica - e quindi nella sottovalutazione dell’intensità ontologico-regionale del << problema del senso >>. A proposito del primo ostacolo, vorrei solamente notare che il richiamo allo strutturalismo come alla prospettiva che prevede l’unità razionale del senso e della forma e sotto la quale la nuova formulazione epistemologica può essere restaurata, risulta contraddittorio con l’elemento più innovativo dell’opera di Thom e

- 183 -


dell’apprezzamento che Petitot ne fa. Voglio dire che lo strutturalismo, comunque inteso, è contraddittorio con lo schematismo; che lo strutturalismo, rigorosamente inteso, non permette quel positivo squilibrio fra << Sachverhalten >> e costruttività razionale entro il quale la scienza considera i fenomeni critici del reale e si adegua alla loro autonomia. Non a caso Petitot è costretto, per risolvere questo problema, ad assumere nella lettura della metodologia di Thom la centralità di un << tiers terme >> fra oggetto e soggettività empirica: terzo termine che non è semplicemente un elemento costruttivo della prospettiva scientifica (e dunque, come tale, indefinitivamente ed operativamente plasmabile) - è bensì una legge d’essenza regionale, un elemento eidetico costitutivo, una modellizzazione matematica a priori. Ora, questa assunzione, se è indubbiamente coerente con una lettura strutturalistica del mondo, è profondamente contraddittoria con lo spirito dello schematismo. Essa mi sembra ripetere elementi non irrilevanti del formalismo husserliano.

E’ noto come venga formandosi, storicamente e problematicamente, il formalismo husserliano. Esso si pone alla confluenza di due fondamentali sviluppi della filosofia posthegeliana e della critica delle concezioni dialettiche nel tardo ottocento tedesco. Da un lato esso riprende l’esigenza della scuola di Martburg di sviluppare il kantismo come eidetica e simbolismo della ragione; dall’altro esso riprende la tendenza, viva in Dilthey e nella sua scuola, come nelle prime impostazioni gestaltistiche, di fissare i criteri strutturali (regionali) di una metodologia genetica e descrittiva. In entrambi questi filoni, e a partire dalla sintesi pur innovativa che Husserl opera nelle Logische Untersuchungen, si formano indirizzi di pensiero tipologici, gestaltistici, simbolici e formalisti. Ora, che cosa ha a che fare questo comportamento di descrizione eidetica con lo schematismo costitutivo precedentemente descritto? In tal modo non si ritorna piuttosto a santificare il formalismo, scarnificato quanto si vuole, eppure presente, in qualcuna delle sue molteplici figure? Non ritorna l’analitica trascendentale a schiacciare la capacità dell’estetica del senso di esprimere autonomamente la propria tensione schematica? Sorge qui il dubbio che la stessa prescrizione, precedentemente offerta allo sviluppo della metodologia della ricerca, di identificare concetti strutturali a contenuto categoriale, costruendoli attraverso

- 184 -


un << processo di mediazione >> fra i dati dell’esperienza, possa risultare ambigua. Che cosa infatti significa più << mediazione >> a questo punto? E’ di nuovo forse << mediazione >> di essenze analitiche e contenuti concreti? E’ addirittura ripetizione di un processo di << deduzione >> trascendentale? Non sembrava, inizialmente, che le cose stessero in questi termini; sembrava invece che << mediazione >> fosse sinonimo di << costruzione >> - e che l’estetica della sensibilità producesse essa stessa il proprio schema di sviluppo. In questo caso l’analisi si sviluppa (e l’analitico si forma) non deduttivamente, bensì dentro l’aposteriori stesso.

A proposito di questo primo ostacolo che sorge sulla via che Petitot percorre, mi sembra dunque che si debba scrupolosamente tener distinta la nuova lettura dello schematismo costruttivo che dobbiamo a Thom (e la sua rielaborazione nello stesso Petitot) dalla tentazione di ricondurla dentro la tradizione dello strutturalismo. Il ritorno allo strutturalismo rappresenterebbe infatti non la riscoperta della funzione costitutiva del nesso epistemologia-ontologia, bensì una riconferma del formalismo e dei trucchi deduttivistici di un’analitica disincarnata.

Ma v’è anche un secondo ostacolo che si presenta nel corso della lettura che Petitot fa del pensiero di Thom. Intendo parlare di un certo << riduzionismo >> nella definizione del << problema del senso >>. Ora, in questo saggio di Petitot, siamo dinanzi alla compresenza di un’impostazione di carattere generale (che ha come compito la rilettura dello schematismo trascendentale della ragione) e di un’applicazione di carattere particolare (la rilettura della teoria delle catastrofi in Thom e l’impatto dell’impostazione geometrico-matematica sull’insieme teorico dell’epistemologia). Si tratta ora di chiedersi Se, non episodicamente né casualmente, il senso generale dell’impostazione non sia tradito dall’esemplificazione, dalla dimostrazione particolare. Meglio, se nel corso dell’applicazione, Petitot non sia indotto a ridurre in maniera sostanziale il campo di intervento, piegando e stringendo il discorso sullo schematismo dentro quello sulla modellizzazione matematica. Io non penso che le cose vadano in questo senso, penso invece che il discorso di Petitot sia sostanzialmente lineare nella direzione di un ritrovamento degli elementi dello schematismo della ragione - a valenza universale. Ho tuttavia l’impressione che, ciò malgrado, sia in lui prevalente la tendenza modellistica

- 185 -


sopra e contro il progetto ontologico dello schematismo, e che in generale questo prevalere di tendenze modellistiche possa rappresentare un potenziale ostacolo ad un nuovo progetto di schematismo della ragione. Vale dunque esplorare la possibilità di questo errore.

Ora, Krisis è crisi del razionalismo classico. Il razionalismo classico, nella sua conclusione, relega l’ontologia al di fuori della logica e fa di quest’ultima la sola scienza costitutiva, analitica in senso proprio. Ma Krisis è anche crisi del razionalismo dialettico. La dialettica impone le leggi di una logica (rinnovata) all’ontologia. In primo luogo si tratta dunque di chiedersi: quando la modellizzazione matematica viene assunta come traccia dello schematismo della ragione nella sua funzione costitutiva del mondo, non si rischia una << riduzione >> del campo ontologico che inevitabilmente << lascia spazio >> almeno a feticci dialettici - se non al razionalismo classico? Ma il problema è più generale e supera di gran lunga il pericolo di veder rivivere una discreditata dialettica. Il problema consiste piuttosto nel chiedersi quale sia il nuovo globale significato, e le forme e le dimensioni, dello schematismo trascendentale rispetto all’età kantiana ed allo svilppo [sic] del razionalismo classico, dialettico o critico. Il problema non è da poco. Nell’ultima parte del suo saggio, riprendendo alcune fondamentali intuizioni di Habermas, Petitot riconosce che lo sviluppo contemporaneo delle scienze e delle tecnologie si costituisce in un’opacità storica che somiglia all’opacità dell’evoluzione naturale. Una << seconda natura >>, la cui inerzia ed insensatezza ripetono la dialettica oscura della << prima natura >>. Che cosa dunque significa << senso >> in questo quadro? E’ davvero possibile afferrare la pregnanza e l’estensione di questa realtà a partire dalla modellistica matematica? Quale può essere la << presa >> di modelli matematici, anche rinnovati, a questo livello di sussunzione, e di indifferenza, del mondo nell’orizzonte della scienza e delle tecnologie? Di contro: qual’è la << differenza >> che lo sviluppo dello schematismo deve imporre in questa nuova Umwelt naturalistica? Noi conosciamo l’analitica trascendentale di quest’universo e l’enorme prigione di insensatezza che essa produce: ma non sappiamo che cosa significa oggi, nella totalità del suo senso, un’estetica trascendentale. Come risolvere questo problema? La sociologia è chiaro, si presenta come regione naturalistica essa stessa: il

- 186 -


senso di un’ontologia non è dunque in nessun caso riducibile a quello di una regione sociologica - ed ha ragione Petitot a criticare quest’illusione in Habermas. Ma se questa << via brevis >> non è data, resta comunque il problema di chiarire che cosa possa essere un ontologia che si ponga a livello della grande trasformazione del senso dell’esperienza - quale è quella che stiamo vivendo. Che interpreti, ad esempio, la pregnanza dell’indistinzione del Sachverhalten (quali il descriveva l’ultimo Wittgenstein); che rompa la circolarità delle fenomenologie funzionalistiche, ecc. ecc..

La risposta a questi interrogativi, credo debba costituire il compito del lavoro filosofico nei prossimi anni. Per ora l’unica preoccupazione dovrebbe essere quella di non racchiudere nuovi modelli di costituzione critica del reale sotto vecchi paradigmi di razionalità. Da questo punto di vista il richiamo di Petitot (richiamo fuggevole) alla rilettura che Deleuze ha fatto dell’estetica trascendentale, sembra particolarmente opportuno.

- 187 -

4. Sull’orlo dell’essere.

A proposito di Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo del negativo, Torino, Einaudi, 1982; di << Vingt ans de pensée allemande >>, numero speciale di Critique 413, ottobre 1981, Paris, t. XXXVII, con articoli di H. Gadamer, K.O. Apel, R. Bubner, J. Habermas, D. Henrich, N. Luhmann, O. Marquard, E. Tugendhat, R. Wiehl, W. Iser, H.R. Jauss, G. Kortian; di Vincent Descombes La même et l’autre, Quarante-cinq ans de philosophie française (1933-1978), Paris, Les éd. de Minuit, 1979.

Il pensiero della Krisis ha rappresentato, per una non più breve stagione, il punto di riferimento della crisi del marxismo in Italia. Lo sfaldamento della teoria marxiana del valore e l’impossibilità di riportarla ad uno schema razionale di pianificazione e delle formule politiche che ad essa si erano richiamate - determinano la necessità, tipicamente italiana (e cioè imposta dall’alto livello di lotte e di politicizzazione comunque esistente lungo gli anni settanta), di salvare la politica comunista oltre la crisi della teoria comunista. Il pensiero della Krisis sembra svolgersi in questo quadro.

Sulla crisi della teoria del valore, e cioè del fondamento della razionalità complessiva del sapere rivoluzionario, si pone lo sforzo di rifondazione del progetto. Un prometeismo della politica in assenza di una scienza, anzi, in presenza della crisi radicale del suo fondamento. La scienza è perciò del progetto, nella misura stessa nella quale non può più essere scienza del fondamento. Una sorta di acuta schizofrenia coglie così la teoria di una parte consistente del comunismo italiano: quanto più la scepsi si approfondisce e va indietro alle origini stesse del pensiero filosofico e politico dell’occidente moderno, tanto più viene svolgendosi una specie di scienza pura della politica.

Il fondamento sprofonda nella mistica ad indicare l’assenza di ogni validazione per quella razionalità tecnica cui si accede tuttavia nel disincantato della politica - nel cinismo si rappresenta il fantasma della weberiana Beruf politica (talora non si evitano moralistiche inflessioni tratte da quell’antica socratica scuola - come quelle, absit iniuria, rilevabili nel famoso discorso dell’Eliseo). Il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà

- 188 -


raggiungevano un paradossale apogeo. C’è da aggiungere che queste traiettorie filosofiche-politiche negarono con insistenza, o riconobbero con estrema difficoltà, la matrice tecnica che autenticamente le sosteneva. Non se ne intende la ragione: non per la prima volta infatti la teoria socialista dell’autonomia relativa del politico, dello Stato e del diritto avrebbe esplicitamente assunto una dimensione tecnicistica -come ad esempio avvenne a pensatori della statura di Lundstedt, in fecondo contatto con l’irrazionalismo etico della scuola di Uppsala negli anni trenta. In mancanza di questo riconoscimento a funzione del << pensiero negativo >> rischia chez nous di risultare mistificatoria - e la mistificazione può godere di disprezzo e oblio.

Il libro di Agamben ha un primo merito storico-critico: ed è quello di afferrare il pensiero della Krisis per i capelli e di sganciarlo dalla mistificazione politica che lo animava. Da questo punto di vista reintroduce il pensiero negativo nella discussione filosofica del nostro tempo, riconsegnandogli la dignità di passaggio critico.

Rispetto a che cosa? Rispetto appunto al problema della definizione del fondamento. Ed è qui anche il secondo merito del libro di Agamben: il fatto di attaccare con grande determinazione a posizione stessa del problema del fondamento, e di consegnare la soluzione non all’ipostasi della Krisis ma alla riscoperta di un nesso dell’essere e della pratica.

Agamben muove dalla convinzione che il luogo di nascita della filosofia occidentale, la sua ricerca del fondamento ontologico, articolandosi necessariamente alla definizione del linguaggio che lo esprime, sia luogo essenzialmente mistico - la ricerca del fondamento ontologico si aggira infatti fatalmente attorno alla definizione di un dicibile che null’altro può essere se non la ripetizione dell’essere detto.

La fondazione si riduce al mezzo di espressione: la fondazione può esserci solo in quanto è detta, ma l’esser [l’essere ?] detto non ha così fondazione, è pura voce. L’escamotage del pensiero della Krisis e quello di ammettere la crisi del fondamento e di accertare il suo affondare nel pensiero mistico, ma di assumere nel contempo, simultaneamente, la voce e la logica di espressione come intenzioni autonome ed indipendenti dal misticismo del fondamento:

- 189 -


sicché la logica del progetto non solo si vuole senza un fondamento ma - astuzia degli dei - lo è davvero. Il pensiero del progetto risulta, su queste basi, ineffettuale - esso vive dell’illusione di riprendere la potenza logica di un problema insoluto. Potenza logica, quindi, insussistente.

Ricostruendo storicamente lo sviluppo del problema del fondamento, ovvero del rapporto fra fondamento ontologico e voce che lo esprime, Agamben taglia due nodi principali: Hegel e Heidegger. In Hegel l’identificazione del problema del fondamento e della dimensione logica della sua espressione è totale.

Ma è proprio questa assunzione radicale del problema del fondamento nella dimensione della logica a far esplodere il problema. La circolarità indefinita della soluzione è da Hegel assunta a fondamento. Il cattivo infinito che si vorrebbe evitare diviene il principio. Il fondamento diviene, e non può che essere nella logica, l’infondato. L’insignificanza della voce pretende a fondamento dell’essere - ma la voce è solo una modalità dell’essere e non lo fonda. Il circolo ontologico-linguistico non si chiude.

Heidegger mostra come questo circolo non si chiude in nessun caso. E a ragione: egli spinge l’intenzionalità husserliana fino all’identificazione nel tempo dell’essere, e qui il senso (significato) dell’essere può concludere solo alla vanificazione [verificazione ?] di ogni senso (direzione) dell’essere, alla dichiarazione della completa inessenzialità dell’esistente. Quindi, ad uno statuto ontologico completamente negativo anche per la voce che esprime l’essere.

Il tentativo di considerare l’essere, in Hegel, come relazione di tutte le relazioni è vanificato [venificato ?] nel riconoscimento che ogni relazione è infondata - il senso della metafisica è dunque il cogliere questa nullità delle relazioni.

Heidegger porta paradossalmente a termine, nel nihilismo, il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, che era consistito nel disegno di riportare il negativo, attraverso a dialettica, nel processo della totalità - come dichiarazione dell’essere e probabilmente, data la connessione fra senso della totalità e senso etico della vita, come idea di autocostituzione etica del mondo. La rete logica che stringe questo progetto è per Heidegger dissolta - e l’eticità ridotta a logica è essa stessa tratta dentro questo processo non di autofondazione ma di autodissoluzione.

- 190 -


Invero, sottolinea Agamben, quest’autodissoluzione nihilista dell’essere lascia libera la voce - ma un’altra voce, una voce assoluta, assolta dalla negatività di cui si è fatta portatrice, effettivamente piesis ora, in quanto essa permane come unica potenza di quest’universo dissolto. La voce si libera dalla genealogia della negatività - prima di una disperata solitudine, poi tentando di riorganizzarsi nel rapporto linguistico, e quindi di riassumere l’esistente nel rapporto etico. E’ possibile dunque un’assoluzione della voce che la proponga come base di una umana metafisica? E’ possibile nella misura nella quale la voce non si presenti come logica, a riassumere in sé la metafisica, bensì si presenti come etica e da questa dipani le ragioni dell’essere: solo in questo modo il valore del nihilismo può essere colto.

E rovesciato? La voce, dopo essere stata la chiave della logicizzazione dell’essere ed aver quindi costituito il terreno della dissoluzione del suo stesso senso, nella costituzione dell’infondatezza del dire il fondamento, - può dunque ora costituirsi in orizzonte di senso? E verso dove?

La voce pone comunque il problema dell’etica. Non sono certo di interpretare correttamente Agamben, a questo punto. A me sembra che qui intervenga un terzo autore, mai citato ma presente. Si tratta di Marx. Di un Marx strappato su, fino al livello della sussunzione reale e cioè all’orizzonte di una completa riduzione dell’essere alla voce, della catena dei rapporti produttivi alla comunità delle relazioni linguistiche.

Qui si potrebbe presentare una teoria della voce come voce della coniazione dell’essere. Ma coniare l’essere ha senso solo se a voce è assunta in termini etici: una coniazione logica dell’essere sarebbe semplicemente riproposizione del problema del fondamento e quindi riproposizione della Krisis, della circolarità insensata del fondamento logico dell’essere. Ne risulta che la voce, in quanto voce collettiva, eticamente sensata, produttiva e costitutiva, rappresenta la sola base di una filosofia che possa riconquistare l’essere.

Da Hegel a Heidegger si scioglie la tradizione della metafisica occidentale. Il suo compimento e la sua fine. Fine dei tempi, come Kojève ha visto in Hegel - ma fine dei tempi è apertura di un nuovo tempo, dominato dalla voce etica. Marx ne ha intuito il

- 191 -


significato, e il pensiero negativo non sostituisce Marx, non mette la politica al posto della teoria, ma è semplicemente l’introduzione ad una rilettura di Marx nella sussunzione reale. Quindi ad una rifondazione della teoria.

Ma rivediamo questo passaggio. E’ su di esso infatti che, nella filosofia italiana, si compiono operazioni analogamente tentate, in questi anni, dal pensiero francese e da quello tedesco. Un primo episodio va identificato nella filosofia tedesca (Habermas, Apel, Tugendhat, ecc.). Qui il riconoscimento della Krisis è avvenuto nel comune esaurirsi delle prospettive realistiche e delle ultime espressioni della tradizione del criticismo. Mentre le prime concezioni continuamente si scontrano con l’impossibile soluzione del problema del fondamento - << ma i Topici non concludono >> -, la seconda impostazione crolla nell’inconclusività della trafila << avalutatività-decisionismo-razionalismo critico >>. L’unica via d’uscita è il trascendentalismo. Donde un singolare ritorno a Kant - non tanto allo scopo di riaffermare l’orizzonte critico come tale, quanto nel tentativo di dare sostrato ontologico al trascendentalismo. Ma quale può essere questo sostrato? Può solo essere un terreno di interazione comunicativa. Si badi bene: non è la critica sociologica ma soprattutto la scuola ermeneutica a spingere in questo senso, e non la densità dei suoi strumenti. L’estetica trascendentale, attraversando il terreno della voce, della comunicazione collettiva, tende alla rifondazione di un progetto etico. Il tema etico è tema di strategie comunicative.

La critica della ragione strumentale, sottolinea Habermas, non è riuscita ad avere sostanza comunicativa, deve quindi nuovamente svilupparsi in teoria dell’agire comunicativo. Ed Apel insiste sulla necessaria coniugazione di coscienza ed intersoggettività, sulla necessaria implicazione istituzionale di evidenza e di validità; e Tugendhat dipana l’unità trascendentale del soggetto in una serie di contigue e/o alternative decisioni consensuali.

Che tutto questo possa non rappresentare altro’ che una nuova defatigante e moderata filosofia della mediazione, è vero; che l’illuminismo di questi autori sia eclettico e fastidioso - Garve e non Kant - è pur evidente. Eppure non va sottovalutato il terreno sul quale il discorso filosofico è costretto: il mondo è la voce, l’interazione linguistica, l’essere del pratico. La recezione del mondo in termini di linguaggio (o di interazione comunicativa) resta tuttavia

- 192 -


in modo indifferenziata. L’estetica trascendentale, pur caratterizzata da un soggetto qual’è quello dell’etica (ermeneutica del soggetto) e della politica (ermeneutica della comunicazione), non riesce a descriversi altrimenti che come promozione di un qualche eventuate schematismo della ragione. E il riconoscimento di sé come essenza etica si svolge di nuovo nella dialettica che va dalla solitudine al terrore o in quella senza fine del riformismo. La primarietà della sfera comunicativa è comunque l’irreversibile risultato fissato dalla filosofia tedesca contemporanea. La violenza dell’immediata appercezione etica del mondo sta invece alla base della filosofia francese contemporanea. Qui la fine dei tempi, il senso della produzione dell’essere, l’apprensione della categoria etica, assumono in primo luogo l’immediatezza di questo passaggio costitutivo, lo danno come assoluta datità. In ciò consiste indubbiamente la superiorità della filosofia francese su quella tedesca.

Attraverso il bagno purificatore dello strutturalismo, nelle sue varie tendenze epistemologiche, nihiliste, empiristiche, surrealistiche, alla Bataille, alla Derrida, alla Deleuze, il problema della produzione si situa sull’orizzonte dell’essere equivoco, dato, irresolubile. La distruzione della metafisica avviene sulla dimensione della metafisica. L’essere è percepito senza negatività e trascendenza, perché negatività e trascendenza sono insignificanti, irriducibili alla datità.

Ma, in secondo luogo, la distruzione della metafisica diviene un’operazione. Il soggetto si sa soggetto etico in quanto operatore della distruzione della metafisica, il soggetto e immediatamente positivo in quanto - pur schiacciato sulla dimensione della distruzione della metafisica - coglie l’essere come orizzonte da percorrere, assolutamente aperto.

Nel primo programma sistematico dell’idealismo tedesco, per stare ad una continua sollecitazione di Agamben, la totalità dell’etico è un risultato, è la polis da ricostruire. Nella filosofia francese la totalità dell’etico è il presupposto, l’unico presupposto, formato dal linguaggio, dalla produzione, dalle differenze. Se l’essere appare nelle dimensioni heideggeriane, su queste dimensioni esso va ripercorso - sapendo tuttavia che l’univocità dell’essere heideggeriano si è dissoluta in equivocità. Perciò ripercorrere

- 193 -


l’essere non significa dominarlo: significa assumerlo per quel che è, destrutturarlo, e mostrarlo come figura della voce collettiva e sua continua dislocazione sul ritmo delle voci.

Io non so bene se Agamben possa accettare questo terreno del filosofare, e questa definizione della metafisica. La cosa certa è che egli giunge su quest’orlo - con un lavoro che innova e riassume tendenze della critica francese e della costruzione postfrancofortese dei teorici tedeschi. Io sento che ora siamo obbligati ad accettare questo comune terreno di proposta filosofica. Il discorso di Agamben ha per certi versi un andamento humeano: disarticola la complessità della tradizione, forse solo per distruggerne i presupposti, - ma con ciò afferma una rinnovata prospettiva di lavoro, come presupposto problematico. Questo morto materiale può dunque essere usato come fertilizzante di nuova vita. Non occorre sapere che cosa sia il mondo perché l’esser - ci produca - se solo amiamo questa frontiera dell’essere come disutopia totale e sola nostra speranza possibile. La filosofia non anticipa il reale, può solo accettarlo e procedere sincronicamente con esso. Una metafisica dell’assolutamente positivo è rappresentata dalla possibilità di propor - si su quest’orlo dell’essere - armati di un’intera disillusione del reale. Il massimo di ottimismo della ragione, unito al massimo di pessimismo della volontà, - rovesciando in tal modo lo stolto stereotipo paleocomunista che ci voleva incapaci di speranza (pessimismo della ragione) e fanatici nell’azione (ottimismo della volontà), perciò preda del terrorismo della filosofia del fondamento.

Noi invece il fondamento lo poniamo nel futuro, nel razionalismo assoluto di un’etica positiva. Il passaggio che ora si deve compiere è compreso nell’arco dei problemi che la critica ha proposto: esso consiste cioè nell’articolazione della voce. La determinazione collettiva, produttiva, ontologicamente costitutiva della voce umana va posta a soluzione del contesto etico. Etica significa comunicazione e l’essere della comunicazione è sensato.

In realtà, alle origini dell’idealismo trascendentale, il Sistema dell’eticità di Hegel aveva sviluppato questa consapevolezza in un quadro avvertito della complessità etica - ma questa complessità lo spinge verso la rassicurazione, e il mondo etico va quindi risotto nella forza della mediazione e della logica. Di contro,

- 194 -


la filosofia contemporanea moltiplica il terrore trascendentale della complessità etica ma nel contempo pone l’impossibilità che la logica rappresenti la chiusura del reale. Heidegger svolge il problema fino a ridurre all’insignificanza il compito eroico che l’ascetismo logico di Husserl gli aveva affidato. Wittgenstein vanifica ed esalta in godimento mistico la completa circolarità di questo compito metafisico: la disillusione si fa gioco, il décir è liberty. Oltre ascetica e mistica, oltre la tragedia di due guerre e la crisi del socialismo reale, la filosofia deve ritrovare un terreno di fondazione: ed è quello sul quale ristà la vita dell’uomo, un orlo di un essere che non è ancora. Un’etica assoluta senza valore e senza futuro. Eppure il fondamento è nel futuro. Ma fondamento e parola vana.

Riusciamo dunque a sbrogliare la matassa delle speranze, razionalmente, senza affidarci [affidarsi?] ad alcun ottimismo della volontà? Riusciamo a cogliere la voce che rappresenta la nostra umana essenza non come sostitutivo dell’essere ma come costituente il essere? Ho l’impressione che la filosofia contemporanea ci abbia portato su questo limite. Ho l’impressione che la disperazione dell’esistente ci spinga oltre.

Staccata dalle funzioni politiche che le sono state impropriamente affidate e dalla mistificazione che con ciò le giungeva ad esprimere, la filosofia della Krisis può così rappresentare una possibile introduzione al pensiero positivo, alla filosofia del futuro. Un terreno etico è costituito. Il problema ora è di scavarlo e di coltivarlo, questo terreno. Senza farsi cogliere da ulteriori moti di resipiscenza e tentare nuovi e surrettizi recuperi del negativo. Il concetto di possibilità non introduce il negativo, la speranza razionale non implica il negativo - il fisico non chiama negativo il fatto che la natura conosca dei limiti, che la vita conosca la morte. E’ così - il non essere non è. Questo vuoto può solo essere riempito di umana operosità.

- 195 -

Continues

Back to Book Index